Il Covid è stato un sasso lanciato contro un vetro e la pallavolo dell'ultimo anno si è riflessa in schegge di cristalli che disorientano. Una casa di specchi con un solo punto fermo: i protocolli. Per poter disputare l'attività di base, le garanzie chieste e offerte sono state necessariamente parziali. Eppure ciò è bastato perché dallo scorso autunno la pallavolo si fermasse meno di altre discipline. Pur senza contatto fisico, la condivisione di spazi ristretti e chiusi è una costante e la palla veicolo di potenziale contagio. L'ok all'attività, quindi, è arrivato in pegno di precauzioni tanto meticolose quanto onerose. E grazie all'appendice di finali nazionali tipiche di tutti o quasi i campionati dall'Under 15 in su. Ciò ha permesso di bypassare gli stop comuni ad altri sport come il calcio, che pur si svolge all'aperto. «Le situazioni sono tante e diverse», conferma Matteo Bonacina, responsabile del settore monivolley e scuole per Cernusco sul Naviglio, in orbita Consorzio Vero Volley, ma anche allenatore a Gorgonzola di una C mai partita. «I dirigenti delle scuole, nelle cui palestre si svolge buona parte dell'attività di base, spesso hanno scelto di non prendersi la responsabilità di aprire l'attività a esterni». Ancor più paradossale la situazione dell'alunno-studente costretto a casa in Dad, a scuola per giocare a pallavolo. «Non molte, ma alcune società sono state allora fermate dal sindaco», aggiunge Claudio Gervasoni, allenatore in D a Caronno Pertusella, nel basso Varesotto. «Del resto, il primo cittadino è pur sempre responsabile della tutela della salute», soprattutto se si considera che le palestre delle scuole primarie sono spesso di proprietà comunale, mentre le secondarie generalmente hanno una connotazione provinciale. Situazioni al limite di un cortocircuito legale. In caso di contagio degli atleti, poi, visita medica per riottenere l'idoneità fisica, con distinguo «tra sintomatico e asintomatico e con tempi di reintegro sportivo diverso».
Facile intuire come un'autodichiarazione di asintomaticità escluda ulteriori indagini cliniche e velocizzi il ritorno in squadra. «Abbiamo giocato in Sardegna. Le direttive regionali lì richiedono tampone entro 48 ore dall'arrivo. In altre parole, avremmo anche potuto rientrare senza effettuarlo, ma abbiamo scelto di eseguirlo. Perché, se applicate, le regole di prevenzione danno un aiuto concreto». E un'indiretta garanzia di salvaguardia economica, visto che per iscrivere una D si ipotecano 30mila euro, che rimborsi e spese fanno raddoppiare. Un ginepraio in cui i presidenti delle squadre, responsabili legali degli atleti, si trovano ad affrontare alti rischi dando garanzie che non hanno. Nebulose normative, minacce di temporali legali e piogge di ammanchi economici. A livello nazionale, per il 2020 la Federvolley ha calcolato sulle società di atleti tra gli 8 e i 16 anni mancate entrate per 17,7 milioni.
«Nel 2019 in Lombardia c'erano 86mila tesserati», spiega Piero
Cezza, presidente del Comitato lombardo. «Ora siamo a 60mila. Le società di base hanno risentito maggiormente della situazione, ma per questa stagione la Federazione ha investito 5 milioni di euro a sostegno dell'attività».
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