«Ho vissuto come un principe, in una sorta di fiaba che si dissolverebbe al mio primo regresso, mi resterebbe una sola prospettiva, fare il maestro di tennis, dieci ore in piedi sotto il sole a insegnare a colpire la palla a ragazzi svogliati». Con questa frase, che esprimeva appieno la sua filosofia di vita Nicola Pietrangeli a fine agosto 1960, annunciò il passaggio al nascente professionismo tennistico. Tre giorni dopo però disse di no all'offerta di Jack Kramer e proseguì la carriera da dilettante fino a Palermo 1974. E' uno dei momenti più significativi della storia del tennis che il più grande e famoso giocatore italiano rivive festeggiando gli 80 anni.
Si fantasticò molto sull'episodio, cifre altissime per passare alla troupe di Kramer, incomprensibile quindi la rinuncia. «No, le cifre erano minime, un acconto di 5mila dollari sui tre milioni di lire, ndr per fare esibizioni in giro per il mondo con Gimeno, Haillet e Nielsen come gli Harlem Globe Trotter del basket. Sarei stato squalificato, niente Davis, Wimbledon, Parigi, Roma e tutto il resto. Ci ripensai e dissi di no. Kramer rilanciò l'offerta a 60mila dollari l'anno perchè giocassi con una squadra d'elite, Rosewall, Hoad e Gonzalez. Tre giorni di tormenti e rifiutai anche la nuova proposta. Volevo giocare la Davis, speravo di vincerla».
Ma proprio la coppa è uno dei suoi grandi rimpianti.
«Con Orlando Sirola perdemmo due finali e sempre sull'erba australiana, il regolamento imponeva di giocare in casa della squadra detentrice. Sui campi in terra avremmo più possibilità».
La coppa l'ha vinta 16 anni dopo come capitano.
«Non la divido con nessuno, bravissini Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli in campo ma in Cile ci andammo per la mia battaglia contro la politica che voleva la rinuncia. Dissero che ero fascista....»
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«Certamente, ma la coppa mi riservò anche l'amarezza dell'esonero dopo la finale perduta l'anno dopo a Sydney».
Altre fantasticherie...
«Semplice. Il presidente Galgani era invidioso per la mia popolarità e mi rivoltò contro la squadra. Cacciato in malo modo, dovetti persino comperarmi i biglietti per assistere ai successivi incontri».
Altri rimpianti?
«Esser nato trent'anni prima. Ho vinto più di tutti gli italiani messi assieme e ho guadagnato in tutto meno di quanto Panatta raccoglieva in un anno. Giocavamo per poche lire, non c'erano gli sponsor, oggi avrei decine di miliardi di vecchie lire. Chi vince Parigi prende 2 milioni di dollari».
E lei quanto guadagnò con le due vittorie di Parigi?
«150 dollari per volta.... 30mila lire per Roma.... Quando nel 1958 vinsi a Perugia il primo titolo italiano mi regalarono una motocicletta».
Era opinione comune che se si fosse allenato più intensamente avrebbe vinto e guadagnato di più.
«Vero, ma mi sarei divertito di meno».
Il tennis è stato solo un divertimento?
«Sempre. Da piccolo amavo il calcio, quando dovemmo lasciare Tunisi e raggiungemmo a Roma papà Giulio ch'era stato espulso prima di noi, giocai con le giovanili della Lazio, centravanti, e feci tanti gol».
Qual è stata la vittoria più bella e importante?
«Mi piace ricordare quelle di Parigi e di Roma, e anche se non l'ho vinto il match di semifinale a Wimbledon contro Rod Laver. Ero avanti due set a uno, avevo la palla del 5-4 al quarto e un passante di rovescio, il mio colpo migliore. Si fermò in bilico sul nastro... Manca la controprova ma avrei servito in vantaggio 5-4 e forse... Laver era grandissimo, lo battei sulla terra agli Internazionali d'Italia giocati a Torino nel 1961. Sui campi rossi ero il numero uno del mondo, il grande rivale era Santana che mi sconfisse in due finali a Parigi».
E gli avversari italiani?
«Gardini l'indomabile, il maratoneta, imbattibile sul centrale del Milano. Merlo, l'imprevedibile».
La sconfitta più amara?
«Fanno tutte male. Quella con Panatta ai campionati italiani 1970 a Bologna. Pagai la presunzione e l'anagrafe... Feci vacanza in Sardegna, al campionato ci andai con pochi giorni di allenamento, eppure ero avanti 4-1 al quinto set. Avevo 37 anni lui 20, quasi padre e figlio...».
Un passaggio di consegne, cominciò l'era di Adriano.
«Grande giocatore, magnifico il suo '76 con Roma, Parigi e la Davis. Peccato abbia smesso presto».
Il più grande in assoluto?
«Impossibile dirlo: forse Sampras, ma gli mancano vittorie sulla terra, o Laver».
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