Bisognerebbe vivere la giovinezza quando si è vecchi, per prenderla nel modo giusto. Per accorgersi quanto sia bella e preziosa. Per non sprecarla. Non è l'idea sofisticata di un pensatore antico: è la morale spicciola di Cesare Maldini, il Cesarone più amato dagli italiani, certo grazie a Teocoli e all'imitazione «tra virgolette», ma soprattutto grazie alla sua lunga vita nel pallone, prima da calciatore, poi da allenatore, quindi da ct azzurro, infine persino da papà di. A 82 anni, ottima cera e opinioni schiette per Al Jazeera, Cesarone è un uomo che può ben dire la sua sul pianeta giovani, perché giovane lo è stato, perché con i giovani ha sempre lavorato (gloriosa l'epopea della sua nazionale Under 21) e a dirla tutta perché giovane non ha mai smesso d'essere, con quel suo animo bambino eternamente capace di stupirsi e meravigliarsi. Per sovrapprezzo, aggiungiamoci gli otto nipoti che si ritrova attorno. C'è poco da dire, è un grande esperto del settore. Dalla sua casa di Città Studi a Milano, a due passi dal parco dove appena può va a fare un po' di corsa e di ginnastica, così l'anziano ragazzo vede il mondo giovane, ultimamente messo sotto accusa - per mancanza di fame e di carattere - dal suo erede azzurro Antonio Conte.
Maldini, ma sono davvero così diversi i giovani d'oggi dai giovani di altre epoche?
«E vorrei vedere. Certo che sono diversi, tra virgolette. I giovani vivono sempre i loro tempi. Sono il risultato dei loro tempi. Nessuno deve pretendere che siano uguali a quelli di generazioni precedenti. Non ha senso».
Lei ne ha conosciuti di diverse covate.
«Ho presente com'eravamo noi da ragazzi. Poi, quando ho smesso di giocare e ho cominciato con la Primavera del Milan, ho visto un altro mondo. Successivamente, ho allenato a lungo l'Under 21 azzurra. Anche lì, cambiamenti e diversità. Adesso vedo quelli di oggi, perché in fondo ho otto nipoti e sono costretto a tenermi aggiornato. In generale, mi piace sempre andare al campo e osservare i ragazzini d'oggi mentre provano a diventare campioni».
Ecco, come mai i ragazzi di oggi vengono accusati d'essere così poco portati alla fatica, ai sacrifici, alla resistenza, in altre parole d'essere così viziati e smidollati?
«Secondo me non si va da nessuna parte se si giudica solo dai nudi risultati. Certo, questa è una fase povera di nuovi talenti. Ma attenzione: è sempre andata così. Come in agricoltura: ci sono annate buone e annate povere. Quando aspetti grandi raccolti, magari arriva il turno gramo. Quando invece sei rassegnato al peggio, ecco sbocciare l'abbondanza».
Allora bisogna solo mettersi comodi e aspettare che le mamme italiane scodellino la nidiata giusta?
«In generale è così. Poi però ci capiamo: ci sono anche altri fattori che è giusto analizzare».
Del tipo?
«Che in ogni epoca, in ogni generazione, non può mancare il fattore determinante che fa emergere un giovane».
Il talento.
«No. Cioè, sì, certo che ci vogliono le doti. Ma più importante ancora, nella vita, è la volontà».
Via, ct, ci sono milioni di volonterosi che però restano inequivocabilmente scarsi, e nemmeno tanto tra virgolette. Hanno voglia, di metterci tanta volontà.
«Le giro il discorso: anche se hai un grande talento, senza volontà non vai da nessuna parte. Resterai sempre un'ipotesi, una promessa. A metà strada».
Proviamo a definirla, questa volontà così decisiva.
«Possiamo chiamarla vocazione. Passione. Fame. Motivazione. Chiamatela come volete. Ma ogni giovane dovrebbe avere dentro un'irresistibile voglia di realizzarsi e di arrivare in cima».
Come si riconosce un giovane così?
«Non solo nei campi di calcio. In tutti i campi. Questo giovane lo vedi all'opera nella vita di tutti i giorni. Da quanto impegno ci mette in ogni momento, nel suo ruolo. Dev'essere un metodo continuo, deve essere il suo passo naturale. Certo, in partita o all'esame. Ma anche e soprattutto negli altri momenti ordinari. Lo vedi dalle cose che fa - allenamenti seri, riposo, studio, rinunce, regole - e dalle cose che non fa, per esempio andare a letto tardi di notte, mangiare sregolato, bere troppo, scansare le fatiche».
Ne ha incontrati molti di quelli senza volontà?
«Certo».
Per esempio?
«Nomi non ne faccio neanche sotto tortura. Ma che roba è, mica voglio svergognare la gente a tanti anni di distanza. Posso però garantire una cosa: oggi, quei tipi, hanno capito e sono pentiti al cento per cento».
E sono pieni di rimpianti.
«Purtroppo capiscono soltanto dopo, l'occasione sprecata. Hai avuto la fortuna più sfacciata e l'hai stupidamente sbattuta via».
A chi tocca avvertirli in tempo e raddrizzarli in tempo?
«Alla famiglia, non ci piove. Pensare che sia la scuola, o l'allenatore, o il capufficio a plasmare il ragazzo è stupido. Tutti possono fare la loro parte, ma il lavoro decisivo si fa là, tra le mura di casa. È lì che si matura la cultura della volontà».
E dei sacrifici.
«Indubbiamente. Anche se per il calcio voglio fare un'aggiunta fondamentale: chiamarli sacrifici mi sembra un po' eccessivo. Ragazzi, giocare al calcio e farne una professione è qualcosa di fantastico. Il sacrificio, rispetto a quello che torna, è minuscolo».
Però mi pare di capire che la fame non si possa inculcare: o uno ce l'ha, oppure è inutile insistere.
«Spesso si scambia questa idea di fame con l'idea di povertà. Ma non è così. La fame è una molla che possono avere anche quelli che mangiano bene. È una spinta interiore. Dicono sempre che calciatori si nasce. Io non sono d'accordo. Buoni calciatori si può diventare. Ma si torna al punto: serve prima di tutto tanta passione. Se manca quella, non se ne caverà mai niente. Tutto diventa un peso, un fastidio, una seccatura. Li vediamo, poi, i cosiddetti indolenti...».
Balotelli?
«Sto sul generale, tra virgolette. Ci sono regole e disciplina, nella vita. Per arrivare, bisogna sapersele imporre. In prima persona. Chi crede di andare avanti a colpi di tacco, non arriverà mai da nessuna parte. I colpi di tacco sono belli, ma sono una cosa in più. Guardiamo Messi...».
Guardiamo Messi.
«Lui sì è l'esempio vivente di ciò che intendo dire. Un talento smisurato, colpi incredibili, ma sopra a tutto questo c'è un ragazzo d'oro, umile, che non smette mai di applicarsi e di migliorarsi. Che non vive sopra le righe, fuori dalle righe. Lontano dal campo, quasi nemmeno sai della sua esistenza. Ma attenzione: non sto dicendo che i ragazzi devono essere santi. Nessuno deve essere santo. Basta essere persone serie».
I giovani si lamentano di essere sacrificati, di non essere capiti e valorizzati. Prendiamo il calcio: dicono che è difficile emergere se con tutti questi stranieri non si riesce mai a giocare.
«Amici miei, la competizione è una grande cosa. Se io ho davanti uno straniero, posso certo rassegnarmi e piagnucolare, tra virgolette. Ma posso anche fare di tutto per essere meglio di lui. Io non ho mai visto un allenatore o una società che rinunciano a un talento, se questo si presenta con tutte le credenziali in regola. Non dico che sia facile: ma se nella vita non si accetta la concorrenza, allora è meglio starsene a casa».
Mi dica sinceramente: che reazione ha quando vede in giro i viziati del bel mondo sportivo?
«Mi incavolo dentro. Questi non fanno un lavoro, questi hanno una grande fortuna. Sa quante volte l'ho detto ai ragazzi? Se non capite la bellezza di questa fortuna, vi fate del male. Un male di cui vi pentirete tutta la vita.
Soprattutto dopo, nelle età mature. E ve ne pentirete amaramente. Allora sì vi volterete indietro e vedrete tutto chiaro. Ma non potrete più fare niente, purtroppo. Potrete dire solo poche parole finali, tra virgolette: che scemo sono stato».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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