L'inverno è da ripensare. È il grido di allarme lanciato da Thomas Bach, presidente del Cio: «Entro il 2050 oltre il 50% delle aree sciistiche europee potrebbe non esistere più nella forma attuale: in montagna gli effetti del cambiamento climatico sono più forti del 25-50%». Da qui la decisione di far slittare al 2024 l'assegnazione dei prossimi Giochi 2030. Sapporo si è autosospesa, Vancouver traballa; resta, per ora, in piedi solo Salt Lake City: «Potrebbe essere necessario ridurre i format di coppe del Mondo e Mondiali di sci», il secondo affondo del Cio. Una presa di coscienza un pizzico tardiva, dopo almeno tre edizioni dei Giochi, dal 2014 al 2022, organizzate fra Mar Nero, Corea del Sud, sempre vista mare, e Pechino.
In attesa di vedere, dopo Torino 2006, finalmente le Olimpiadi invernali tornare proprio in Italia nel 2026, quale può essere l'impatto di questo indirizzo del Cio sul settore agonistico, ma anche turistico delle montagne italiane? Dal punto di vista agonistico l'idea del Cio di comprimere ancora la stagione «a tre mesi e mezzo» non piace a parte degli atleti che semmai da tempo chiede di diluire la stagione, utilizzando anche l'inverno australe, insomma la nostra estate, che le squadre trascorrono comunque agli antipodi per allenarsi. Gare tutto l'anno, partendo dal sud America, darebbero più respiro fisico ai campioni, maggiore appeal anche di marketing allo sci alpino e alle aziende di settore. «Ridurre il cono di gare renderebbe, al contrario, ancora più di nicchia questo sport», affermano da anni i principali broadcaster tv europei.
Le parole del Cio hanno, però, una ricaduta anche sul settore turistico: il cambiamento climatico è innegabile, certamente, «ma va contestualizzato e non reso catastrofico», spiegano da Cortina D'Ampezzo gli impiantisti con Enrico Ghezze. «Vero è che oggi lo sci alpino si salva solo sopra i 1800 metri» e con l'aiutino della neve programmata, spiegano da Livigno, fra le località più alte d'Italia. Sulle Alpi le piccole località stentano (Panarotta, Montecampione resteranno chiuse) anche per i costi dell'energia, quelle sugli appennini (Dal Penice che vorrebbe nuovi cannoni a Schia) vivono alla giornata a seconda del vento. I grandi comprensori, come Cervinia pensano ad ampliarsi, con il collegamento Alpine Crossing per Zermatt pronto a primavera 2023 e l'idea di espandersi ad est verso il Monterosa agganciandosi agli impianti di Champoluc. Il covid ha congelato, per ora, l'espansione in quota di Courmayeur che intende restaurare l'impianto di Cresta D'Arp, da anni lasciato al free ride (e purtroppo alle valanghe).
«Lo sci alpino è linfa vitale dell'economia di montagna, contro lo spopolamento delle valli; i 2mila impianti a fune non servono solo per sciare, sono un trasporto pubblico ed ecologico a tutti gli effetti, producono un fatturato annuo di 12 miliardi e 15 mila posti di lavoro che vale il 13% del Pil nazionale», spiega Valeria Ghezze, presidente di Anef Associazione nazionale esercenti funiviari. Inutile demonizzare lo sci alpino, pensando di ridurne la stagione o peggio puntare il dito contro la neve artificiale, prodotta. La ricerca, semmai, deve investire affinché sia sempre più green: battipista ibridi o ad idrogeno, cannoni intelligenti che producono solo quanta neve serve, studi per rendere potabile l'acqua di recupero e per avere energia sempre più pulita sono le nuove frontiere che potranno davvero sopperire al cambiamento climatico.
Secondo il Cai - club alpino italiano però, parallelamente serve anche diversificare: «Non pensare al solo sci alpino come caposaldo dell'economia di montagna, evitare gigantismo e comprensori monstre, ma soprattutto attrarre nuovi residenti nelle terre alte, assicurando disponibilità e diffusione di servizi e infrastrutture indispensabili:
scuole, medicina, connessione contro il digital divide», spiega Erminio Quartiani, vicepresidente del sodalizio. Una montagna connessa e tecnologica vive anche con meno neve, con buona pace del Cio e del cambiamento climatico.
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