«Io non sono fatto per fare l'arbitro: volevo solo fare l'elettricista». Il carisma si misura con le parole, ma anche con lo sguardo. Lo sa bene chi ha incrociato Daniele Orsato sui campi di calcio: lui ha fischiato in A 289 partite, secondo solo a Concetto Lo Bello con 328. Nel 2020 è stato nominato miglior fischietto al mondo e oggi, ad anni 49, ha detto basta. «Una volta tornai a casa e trovai mio figlio in camera con un amico, a cui mostrava alcune maglie da calcio che giocatori importanti mi avevano regalato. L'amico gli disse quanto era fortunato ad avermi come padre. Mio figlio gli rispose sì, però non c'è mai». Ha ricevuto il Premio alla Carriera da Filippo Grassìa (Presidente Panathlon Club Milano) e da Laura Schiffo (presidente Panathlon Club Brescia).
Orsato ha iniziato per caso «ed ero convinto che l'arbitro fosse solo uno sfigato che prende tante parole».
Scegliere di fare l'arbitro: oggi più facile oggi di quando era ragazzino lei?
«Senza dubbio. Ci sono molti più strumenti, preparatori atletici selezionati, poli d'allenamento e riunioni online. Io mi allenavo per strada, le bandierine erano in legno. Per diventare internazionale, ho studiato inglese a 31 anni, venendo a Milano per comprarli, perché in montagna non li trovavo».
Nel mondo arbitrale, c'è chi ha detto che senza più Orsato, resta un grande vuoto. Perché?
«Forse perché non ho mai tenuto niente per me: quel che sapevo, l'ho sempre passato ai più giovani. Non sono mai stato invidioso: mio papà era operaio metalmeccanico, mia mamma sistemava le camere negli alberghi: io e mio fratello ci passavamo i vestiti, ci siamo sempre accontentato di quel che avevamo».
C'è più o meno bisogno di grandi arbitri, oggi con il Var? Il Var deresponsabilizza?
«A me non è successo. Semmai, quando mi chiamavano al monitor, me la prendevo con me stesso perché forse mi era scappato qualcosa. Altri, magari, inconsciamente possono aver vissuto sensazioni diverse».
Ma il Var costringe a decisioni in differita: lo spettatore non ne è infastidito?
«Questione di tempo. Gli uomini sono molto restii ai cambiamenti, ma ci abitueremo a queste interruzioni e non ne parleremo più».
Con il Var quanto è cambiato, se è cambiato, il rapporto con i giocatori
«I miei figli mi chiedono come sia Bellingham. Ma non è che ci parli o ci sia confidenza, c'è rispetto. Comunque il rapporto con i giocatori ha cominciato a migliorare già prima del Var. Con il Var l'arbitro forte non perde sicurezza, ma diventa ancora più bravo. Certo, non succede più di entrare negli spogliatoi e provare il sollievo dopo la conferma di aver preso la scelta giusta. Oggi è tutto immediato».
Il rapporto con gli allenatori?
«Con Mihajlovic avevo un rapporto diretto: ci si diceva le cose e finiva lì. E vorrei sottolineare che con i giovani serve pazienza. Collina con me ebbe coraggio nel ripropormi, anche quando sbagliavo. Sarri, scherzando, mi diceva oggi mi sono comportato bene. Ma non serve farlo con Orsato, bisogna farlo con i giovani. Anche se, questo sì, si è abbassata tanto l'età di ingresso dei primi fischietti: a 14 anni non puoi essere pronto a gestire un'offesa come lo saresti a 19».
Il momento più bello della carriera?
«La partita numero 200 in A: in campo con i miei figli, con scritto Orsato sulla schiena. Era un Chievo-Bologna».
La partita più gratificante?
«Sarebbe facile dire la finale di Champions del '20, tra Psg e Bayern. Ma era senza pubblico, per il Covid. Per questo dico Real Madrid-Manchester City».
Ok, restiamo in Europa: perché in coppa c'è un metro di arbitraggio diverso, più permissivo?
«Sono le squadre ad avere un atteggiamento diverso. Non sono gli arbitri a deciderlo, sono i giocatori. Il direttore di gara non pensa oggi voglio fischiare poco: è la partita che decide e l'arbitro si adatta».
La nuove frontiere prevedono microfono live e spiegazioni delle scelte: è la direzione giusta?
«Anche agli Europei si faceva: non a voce, ma sullo schermo si davano spiegazioni».
Nelle scorse settimane sembrava destinato a far da consulente all'associazione arbitrale russa. La rinuncia ha motivi politici?
«Era un progetto serio, autorizzato Uefa e Fifa, che tra l'altro non vedeva la mia presenza in Russia. Semplicemente ha preso corpo una possibilità di formazione con l'Aia ed è stato doveroso dare la precedenza alla mia associazione, sperando che il progetto si concretizzi. Ho ricevuto tanto, vorrei dare ancora di più».
Anche da designatore?
«Non è un termine che mi piace. Vorrei insegnare, ma sono a disposizione».
Ha preso la scelta giusta, smettendo?
«Sono molto sereno: avevo già deciso prima del Mondiale. Poi mia mamma Maria Teresa mi convinse a proseguire per cercare l'Europeo. Avevo promesso a lei che avrei detto basta dopo questo.
Lei vide dal vivo solo una mia partita in Terza categoria e mi chiese perché insultassero lei e non me: gli arbitri sono abituati alle critiche, le famiglie no. Per una partita di calcio, ho avuto la scorta per portare i miei figli a scuola. E la mamma l'ho persa 3 mesi fa, proprio prima dell'Europeo».
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