Per cancellare il suo record mondiale nei 500 metri (stabilito nel 1984 con il tempo di 1'0008) si è dovuto attendere 28 anni e 255 giorni. Per cancellare la sua vita sono bastati pochi giorni e cinque lettere maledette: covid. Donato Sabia, il «Signore del mezzofondo», è morto.
Era il 5 febbraio 2013, quando Orestes Rodríguez a L'Avana sfrecciò in 5932 battendo il primato del campione lucano, due volte in finale negli 800 metri piani alle Olimpiadi di Los Angeles (1984) e di Seul (1988).
Era la scorsa notte, quando Sabia, ricoverato da una settimana nell'ospedale «San Carlo» di Potenza (la sua città dov'era nato l'11 settembre 1963) è spirato su un letto del reparto intensivo riservato ai contagiati di coronavirus.
Un addio senza il conforto dell'ultima carezza della moglie e delle due figlie, perché questa dannata infezione non sa cos'è la pietà. È la 15ª vittima in Basilicata, da giorni al centro di un'angosciante polemica su come la Regione sta gestendo l'emergenza-epidemia. Sul banco degli imputati i vertici istituzionali locali per una serie di presunte anomalie su cui anche la magistratura ha deciso di far luce: a cominciare da modalità, tempistica e discrezionalità con cui finora sono stati eseguiti i tamponi. Un protocollo pieno di zone d'ombra che potrebbe essere stato una concausa nella morte di alcuni malati e, forse, dello stesso Sabia, il cui padre è deceduto in marzo; pure lui nel medesimo ospedale. Donato era amato in città per i suoi trascorsi da velocista ai massimi livelli e per il carattere riservato ma generoso. Donato non era uno che se la «tirava», nonostante la bacheca piena di coppe e medaglie: Sabia è stato infatti un interprete di primissimo piano dell'atletica leggera italiana. La sua specialità, gli 800 metri, cimento per uomini veri, che sanno sfidare la fatica con la forza dei muscoli e la razionalità del cervello. E a Donato non facevano difetto né muscoli né cervello: una coniugazione perfetta tra gambe e testa con cui ha tradotto in successi gli appuntamenti agonistici più prestigiosi: due volte finalista olimpico (quinto nel 1984 e settimo nel 1988), oro agli Europei indoor di Goteborg. Il suo periodo delle «ali ai pedi» resta il 1984, l'anno di Los Angeles e Goteborg e di quell'anno è anche la terza migliore prestazione italiana (tempo, 1'4388) sul doppio giro di pista, a pochi centesimi di secondo dal record assoluto di Marcello Fiasconaro.
Sabia, fin dal primo Mondiale ad Helsinki nel 1983, fece parte della mitica «scuderia di Formia», guidata da Carlo Vittori, l'uomo-chiave che aprì le porte della gloria a un certo Pietro Mennea, con cui Sabia condivise amicizia, allenamenti e anche il podio in alcune staffette 4x400. Poi l'idillio con Vittori si ruppe e Sabia passò dalla corte del famoso coach ascolano a quella del non meno blasonato Sandro Donati. Altro merito storico ed etico di Sabia: l'aver sempre detto «no» a pastiglie, siringhe e «cure» particolari che all'epoca molti suoi colleghi non disdegnavano. Un atleta pulito, Sabia. Fortissimo. Capace di surclassare, nella finale più esaltante della sua vita, un gigante come Juantorena. Su di lui mai un'ombra. Neppure nel periodo più buio dei tanti infortuni che lo relegarono a lungo dalle gare importanti. «Nel 1987 ero in ripresa - aveva dichiarato di recente alla Gazzetta del Mezzogiorno - e arrivai secondo alla Coppa Europa di Praga sotto la guida di Sandro Donati. Poi l'ennesimo infortunio. Mi proposero di ricorrere al doping per continuare la carriera. Rifiutai e denunciai il fatto dopo la conferenza stampa di presentazione della squadra per i mondiali di Roma quando un giornalista chiese al Ct della nazionale che fine avesse fatto Sabia: «Si è infortunato, gli abbiamo proposto di aiutarlo, ma non si è fatto aiutare. Ha paura del confronto con il pubblico italiano». Non finì lì. L'Espresso raccolse la mia denuncia. In realtà avevo detto no al doping, un aiuto a quei tempi quasi istituzionalizzato. E da allora mi chiusero tutte le porte».
Sabia era stato, fino allo scorso anno, il presidente della Federatletica di Basilicata e nel 2006 come tedoforo per i Giochi invernali a Torino aveva portato la torcia olimpica durante il passaggio in Lucania. Un modello di vita per tutti i giovani. La sua terra non deve dimenticarlo.
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