A volte tornano. E non sempre col sorriso. Fine settimana di riscoperte per Sarri, Spalletti e Pioli. Si ripresentano sulle tavole di palcoscenici che hanno calcato, con diverse fortune, fino a poco tempo fa. Col loro carico di rabbia più o meno celata, adrenalina da rivincita, voglia di scrivere il titolo giusto: «Su di noi vi eravate sbagliati...».
Sarri con la sua Lazio (senza Immobile e forse Pedro) sfida la Juve (che perde Bernardeschi e con Dybala a rischio), che in realtà non ha mai sentito sua. Perché non glielo hanno mai fatto credere. Tranne nella fase del corteggiamento, estate 2019 quando i dirigenti bianconeri, non il presidente, avvertirono l'impulso di voltar pagina con Allegri per sposare la politica del gioco offensivo, delle geometrie tattiche disposte sul campo come pennellate d'autore su una tela. Ma dopo pochi mesi feeling già esaurito, con Sarri a mediare tra il proprio calcio e quello che voleva Ronaldo. Risultato: un ibrido che non poteva appartenere alla filosofia di Maurizio e che non riempiva gli occhi di nessuno. Però il nono scudetto arrivò lo stesso. E con quello l'esonero di Sarri. Considerando la brutta stagione scorsa e quella attuale, quel tricolore qualcuno l'ha rivalutato. Il resto dell'annata sarriana in Piemonte non regalò acuti: finale di Coppa Italia persa ai rigori col Napoli ed eliminazione agli ottavi di Champions per mano del Lione. Ma non si può dimenticare che il passaggio di Sarri alla Juve si è registrato nel terribile periodo della pandemia.
Lucio, invece, torna col Napoli a San Siro, tra l'altro da primo in classifica. Spalletti e l'Inter una storia complessa, ma felice, quantomeno per gli obiettivi raggiunti. Il grande merito del tecnico toscano è stato quello di riportare i nerazzurri nella parte nobile dell'Europa, assenza che durava dal 2012. Due qualificazioni Champions ottenute nel frangente di maggior austerità dell'Inter: investimenti minimi rispetto a quelli massicci che sarebbero stati regalati successivamente a Conte per vincere lo scudetto. Milano è piaciuta fin dall'inizio a Spalletti, tanto che al Bosco Verticale vive ancora la sua famiglia. E i tifosi dell'Inter lo ricordano ancora con affetto per il suo modo di vivere quella realtà. La decisione del club di tagliare il legame e darsi a Conte è stata una ferita per Spalletti, mai suturata.
«La partita con la Fiorentina per me non sarà mai come tutte le altre». Lo ha detto Pioli pochi giorni fa. La Fiorentina, squadra nella quale ha militato per 6 anni da calciatore, e Firenze, sono scolpite nel cuore di Stefano. Anche la parentesi da allenatore, culminata con la fine dell'era Della Valle, è stata molto importante. Sul campo e fuori. Soprattutto nello spogliatoio a gestire la tragedia di Astori e il suo decorso. Un patto di amore e acciaio col branco viola che seppe reagire coeso all'immane tragedia. Pioli se ne andò quasi al termine della stagione successiva, costretto a dimettersi, perché un uomo vero non poteva fare altrimenti di fronte ad un comunicato irrispettoso nei suoi riguardi. «Costretto a lasciare - scrisse Pioli - perché sono state messe in dubbio le mie capacità professionali e soprattutto umane». Tutto questo dopo una sconfitta interna col Frosinone.
Pioli in 20 mesi alla Fiorentina, società dove sognava di rimanere a lungo, aveva seminato calcio e valori. Ma non tutti lo avevano capito. Sabato sull'erba del Franchi si emozionerà, ma dovrà pensare al Milan e allo scudetto.
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