Lo Stato confisca il tesoro del boss mafioso Badalamenti: 100 milioni di euro

Gli eredi hanno tentato fino all’ultimo di trattenere il l’ingente lascito che, secondo la difesa, era stato acquisito da Badalamenti grazie al suo legittimo e onesto lavoro

Palermo - Lo Stato ha confiscato l’immenso tesoro di Tano Badalamenti, il boss di Cinisi condannato all’ergastolo per l’uccisione di Peppino Impastato (l’unica condanna di rilievo rimediata in Italia), detenuto negli Usa dal 1984 e deceduto il 29 aprile 2004 nel carcere di Fairton, mentre stava scontando 44 anni di carcere per la "Pizza connection". Non esiste una stima ufficiale, ma si tratterebbe di un patrimonio del valore di circa 100 milioni di euro, tra fondi rustici compresi tra Cinisi, Montelepre e Carini, centinaia di ettari di terreni, appartamenti a Palermo e in provincia, società come la Berna, la Investimenti spa, la Capocabana, in parte intestati alla vedova dell’ex triumviro della vecchia mafia (con Luciano Liggio e Stefano Bontade), Teresa Vitale, e ai figli Leonardo e Vito.

Gli eredi hanno tentato fino all’ultimo di trattenere il l’ingente lascito che, secondo la difesa, era stato acquisito da Badalamenti grazie al suo legittimo e onesto lavoro. Ma la Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, presieduta da Cesare Vincenti, a latere Daniela Vascellaro ed Emilio Alparone, non gli ha creduto e ha emesso il decreto di confisca. Gli avvocati Paolo e Rocco Gullo avevano sostenuto l’impossibilità di adottare il drastico provvedimento a chi come don Tano era morto senza mai avere subito l’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, neppure in primo grado.

Anche per questo l’esito non è stato semplice: l’iter era iniziato nel 1982 e si è concluso solo ieri, dopo 25 anni. In 32 pagine il presidente del tribunale parla di provenienza «certamente delittuosa» del patrimonio.

«Il bene - spiega - finisce con l’essere uno strumento di sviluppo dell’organizzazione mafiosa, dei suoi membri e, quindi, è pericoloso in sè. Appare peraltro paradossale - conclude Vincenti - che l’associazione mafiosa possa evitare la confisca, magari provocando la morte» del ricco possidente.

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