Di Stefano, il mister tv che fa affari con Consorte e piace tanto alla sinistra

da Milano

È l’11 luglio 2005 e Giovanni Consorte, il dominus di Unipol, sta manovrando sotto una coltre di riservatezza per andare alla conquista di Bnl. Il mercato non sa ancora nulla delle sue mosse, i D’Alema, i Fassino, gli amici invece sì. Consorte chiama sotterraneamente a raccolta gli imprenditori vicini perché vuole che comprino per lui pacchetti preziosi di azioni. La Guardia di finanza intercetta decine di telefonate: fra queste anche una conversazione con Francesco Di Stefano, abruzzese come Consorte, il signore di Europa 7, la tv che ha vinto una concessione nazionale ma non ha mai comprato la frequenza per trasmettere. Di Stefano, per intenderci, è l’uomo che potrebbe far allunare Rete4 sul satellite, ma in questo caso gioca come alleato di Consorte. Consorte va di fretta, come si ricava dal brogliaccio riassuntivo della Gdf: «Gli propone di acquistare un pacchetto di Bnl pari allo 0,50 o 0,75 per cento delle quote». A seconda delle possibilità. Di Stefano risponde che «se dovesse servirgli potrà farlo».
In realtà non ha molta voglia di infilarsi in quell’operazione e scaduto «l’ultimatum» lanciato da Consorte, pochissime ore, si fa sentire per ringraziare e dire che non se la sente. Le azioni Bnl non fanno per lui, almeno in quel momento.
Il fatto che Consorte l’abbia chiamato illumina però un tratto della sua biografia fin qui poco frequentato: con che mezzi, con che risorse, Di Stefano è riuscito a creare e mantenere il suo piccolo impero? Un impero che oltretutto funziona più sulla carta che nella realtà, perché 7 ha avuto sì la concessione, ma mai le frequenze e di fatto il nuovo polo televisivo non è mai partito. E allora, come si spiega la forza finanziaria di questo outsider poco noto nella geografia del potere italiano?
Per capirlo meglio, almeno in parte occorre mettere insieme le due metà di una stessa tessera: quell’intercettazione, sepolta fra la carte della Procura di Milano, e un’intervista che lo stesso imprenditore ha dato a suo tempo a Repubblica; ad Antonello Caporale che gli chiedeva conto dei suoi mezzi, lui rispondeva così: «Unipol banca firma il patronage».
Ecco decifrato il segreto di un piccolo miracolo italiano: Di Stefano ha avuto da Unipol il carburante per andare lontano. Anche se per ora è rimasto al palo degli studi ultrasofisticati in zona Tiburtina, alla periferia di Roma: 20 mila metri quadri, una spesa nell’arco di dieci anni di 100-120 milioni di euro, una manciata di dipendenti - non più di 35 - e studi desolatamente vuoti a parte l’affitto a Sky e al «nemico» Rai per produrre programmi come Scommettiamo che o Uomo e galantuomo.
Poco. Pochissimo, rispetto ai sogni accarezzati nel ’99 quando Europa 7 vinse a sorpresa la corsa per una delle undici concessioni nazionali. E allora? Il cinquantaquattrenne imprenditore di Avezzano punta il dito contro centrodestra e centrosinistra, attacca Berlusconi e Prodi, sostiene - ancora di più ora che pure la Corte europea gli ha dato ragione - che lo Stato italiano gli deve dare quel che gli spetta. Una geremiade senza fine, un diluvio di carte bollate, processi che tengono impegnati da anni alcuni dei più noti avvocati italiani, richieste di risarcimenti miliardari.
Però, in attesa che la situazione si sblocchi, l’outsider di Avezzano è riuscito a non affondare, anzi a galleggiare nelle sabbie mobili del sistema televisivo italiano. Una strategia in due mosse: prima ha vinto, sfruttando al meglio la normativa, la concessione e mostrando sulla carta un polo televisivo modernissimo che nella realtà non c’era. Infatti fra i concessionari nazionali era e ed è l’unico a non avere una tv che trasmetta in tutto il Paese. Quando si presenta alla gara, Europa 7 ha una liquidità di 32 milioni delle vecchie lire, e in sostanza due o tre dipendenti. Ma Di Stefano disegna un futuro da grande impresa: assicura di poter produrre in casa oltre il 60 per cento delle trasmissioni (la media nazionale di una tv commerciale si attesta intorno al 40 per cento) e nel suo piano editoriale promette 18 edizioni del telegiornale (Raiuno ne realizza 14). Siamo al secondo passaggio: si compra costosissime strutture, apparecchiature e studi, passando attraverso quel sistema bancario che è contiguo e complementare al sistema politico. Chi gli ha dato i soldi?
Ad Antonello Caporale racconta le sue virtù di finanziere: «Gioco con i soldi: ha presente lo yen, il dollaro, l’euro? È un gioco che diverte e se fatto bene rende abbastanza». A Mauro Scarpellini, che gli domandava dove avesse preso gli 80 miliardi di lire necessari per acquistare gli studi di Roma, lui replicava così: «Glielo spiego io, i soldi arrivano da un finanziamento bancario, non dimentichiamoci che sono titolare di una concessione televisiva nazionale con Europa 7». Ecco il paradosso di Di Stefano: l’ossigeno arriva dalle banche, come Unipol, storicamente vicina a D’Alema e Fassino e al Partito democratico che pure Di Stefano mette nella lista nera.
Così un imprenditore di provincia, dalla biografia piatta come un’ostia, è in grado di attrezzarsi per una lunga marcia. E un bluff, non è un bluff, Di Stefano, come mormorano i suoi detrattori del centrodestra? «Nessuno in questo momento - risponde Marco Travaglio - è in grado di dirlo, perché nessuno è andato veramente a verificare le sue reali possibilità».
Il suo curriculum è quello di un onesto editore televisivo: parte con una radio libera ad Avezzano, piccola ma così piccola da non ricordarsi nemmeno più il nome in una conversazione col Corriere della Sera, poi passa alla tv, sempre formato locale, quindi il salto a Roma dove compra Tvr Voxson. Il prezzo: 1,7 miliardi di lire, versati attingendo al patrimonio di famiglia - il padre è un agricoltore benestante - e con la spinta di un finanziamento del Banco di Roma. Nel ’94 nasce il circuito Italia 7 che riunisce 14 tv, arriva a fatturare 20 miliardi e produce il Seven show che lancia comici come Teo Mammuccari e Max Giusti. Poi il network si spacca fra contenziosi e guerre intestine. Nasce Europa 7, nel ’99 la vittoria a sorpresa, più di quella di Bertoglio al Giro d’Italia, nella gara per le frequenze. Da allora è stallo. E gli studi di Roma rendono solo i 3,5 milioni di euro versati dalla Rai e dagli altri operatori.
Secondo l’Espresso, il mancato dottore - che ha lasciato dopo aver sostenuto 12 esami - costruisce anche tv al plasma in Cina e Corea; ha inoltre partecipazioni in Unipol e Cassa di risparmio di Teramo, il cui direttore è l’ex direttore generale di Unipol banca. Europa 7, o meglio la sottostante società Centro Europa 7, ha un capitale di 6 milioni di euro e al 98 per cento appartiene a questo ruspante, secondo alcuni rustico, signore che tutti i fine settimana torna nella sua villa con piscina ad Avezzano, dove lo aspettano moglie e figlie. «È un uomo che ha proceduto per gradi, si è ingrandito un po’ alla volta, ha la tenacia dei marsicani», dicono di lui in ritornello dalle parti del natio Abruzzo.
Questo è tutto, anzi no: perché Di Stefano vive nel futuro più che nel presente. Ora è in marcia verso, nientemeno, l’Unità. Gli Angelucci, editori di Libero e del Riformista, hanno messo sul piatto circa 20 milioni di euro. Lui, a quanto pare, anche di più: 22-23. E in un treno di interviste ha ribadito il suo interesse per il quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Ancora una volta l’abruzzese deluso dalla politica torna in campo per rilevare il quotidiano che fu del Partito comunista.

E ancora una volta sembra disporre di una liquidità inesauribile. Negli stessi giorni in cui Antonio Di Pietro attacca Mediaset e dice che è ora di dare a Di Stefano quel che è di Di Stefano. Ovvero le attesissime frequenze. Lui intanto continua col suo solito mestiere: aspettare.

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