Stelle spente, un mondiale da operai

Tra gli azzurri Grosso e Gattuso meglio di Totti e Toni. È stato un fallimento pure il quadrato magico brasiliano

Jacopo Casoni

Luca Toni, 31 gol in campionato e un destino segnato: essere l’erede di Pablito Rossi, lasciare il segno, la griffe azzurra, su questo mondiale. Francesco Totti, un crac improvviso, la smorfia e l’urlo di dolore, il suo mondiale che se ne va e poi ritorna, riacciuffato per i capelli.
Eravamo partiti così. Toni-Totti era la coppia dei sogni azzurri, il tandem su cui puntare per riportare quella coppa in Italia dopo 24 anni. E invece è stato il mondiale degli altri, di quelli che non ti aspetti, che di solito le luci le schivano, che se si ritrovano al centro del palco hanno quasi lo sguardo imbarazzato. Quelli che «fanno legna», come ripete fiero Gattuso. Già, Rino Gattuso, il capofila di questi altri. E poi a ruota Materazzi, Cannavaro, Buffon (già più abituato alla ribalta) e Grosso, il protagonista di tutti gli episodi decisivi, l’uomo dell’ultimo rigore di Berlino. Sono loro, per una volta, i volti da copertina del mondiale italiano.
A parte il portiere della Juventus, colpito a freddo dagli scandali alla vigilia del viaggio per Duisburg, ma identificato come uno dei punti di forza della nostra nazionale, le vedette azzurre sembrano capitate lì, sul tetto del mondo, quasi per caso. Anzi, più d’uno sembra proprio un’emanazione del destino. Materazzi e Grosso, ad esempio, l’esordio con il Ghana l’hanno visto dalla panchina; poi gli infortuni e le scelte di Lippi hanno aperto loro le porte di un mondiale da sogno. Gattuso stava per pagare a caro prezzo la sua generosità: un dolore che voleva dimenticare, a cui non era giusto badare e la gamba che cede, proprio il giorno della partenza per la Germania. Ma Lippi aveva scelto e di tornare indietro non ne voleva sapere, uno come Ringhio si aspetta, ne vale la pena. Ed ecco il milanista diventare il leader dell’Italia operaia e vincente. Cannavaro di questa squadra è stato il capitano, in campo e fuori. Un muro invalicabile per gli attaccanti avversari, un esempio di serenità e calma per uno spogliatoio unito ma squassato dalla tempesta di Moggiopoli. A memoria, oltre la coppa dorata, questo mondiale manda le loro storie, quelle facce e quei sorrisi, felici e quasi imbarazzati.
E il resto di questo mondo tinto d’azzurro? Le stelle hanno deluso in massa, si sono spente ancor prima di cominciare a brillare o hanno abbagliato a intermittenza. Ronaldinho, Ronaldo, Kakà e Adriano, il quadrilatero di Parreira che doveva stregare il mondiale, sono stati protagonisti del flop più inatteso. Ma anche gli argentini, che dopo il cappotto rifilato alla Serbia avevano soppiantato i verdeoro in cima alla classifica dei superfavoriti, sono caduti fragorosamente. Le scelte di Pekerman, forse, sono alla base del fallimento; l’utilizzo con il contagocce del fenomeno Messi è una sorta di delitto imperdonabile. La Germania se l’è cavata più che discretamente. Alla vigilia ai tedeschi tremavano le gambe: proprio nell’anno del mondiale di casa la squadra non prometteva nulla di buono. Ma loro sono panzer e, aggrappati ai gol di uno splendido Miroslav Klose, hanno travolto tutto e tutti fino all’incontro con il destino vestito d’azzurro.
Poi, resteranno le perle di Torres e i soliti rimpianti spagnoli, l’Ucraina di Shevchenko che tra luci e ombre ha raggiunto i quarti di finale, la vergogna di Olanda-Portogallo piena zeppa di entrate da galera e cartellini gialli e rossi, Ivanov che ammonisce tre volte il croato Simunic prima di spedirlo sotto la doccia, la festa colorata di Trinidad&Tobago, gli ennesimi miracoli dei ct Hiddink e Scolari. Resterà incancellabile negli occhi di chi c’era, ha visto e ha stentato a credere, la follia di Zidane. La vera macchia di questo mese mondiale.

La prestazione da incorniciare contro il Pallone d’Oro Ronaldinho, il rigore che vale la gara delle gare, il cucchiaio in faccia a Totti, e poi quel colpo di testa che chiude una favola con il finale più amaro.
E poi, sì, resterà lei, la coppa del mondo nelle nostre mani.

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