Alessandro Massobrio
Marcello Staglieno, LItalia del Colle, Boroli Editore, Milano 2006, pag. 366, euro 24,00.
Dieci presidenti per sessant'anni di storia. Uno spaccato profondo dell'Italia, contemporanea, quella uscita dalla guerra e dalla resistenza e che ha consegnato il proprio testamento spirituale ad una costituzione, intorno alla quale il dibattito e la polemica sono tanto intensi da percorrere lintero volume. Anche se di un volume di storia si dovrebbe trattare. Ma Marcello Staglieno, giornalista e uomo politico di lungo corso (cofondatore de Il Giornale montanelliano, senatore della Lega Nord, direttore del Secolo d'Italia, il quotidiano di AN) non è uomo da affrontare i problemi del passato con quel sine ira ac studio, che Tacito raccomandava allo scrutatore del passato.
Intendiamoci bene, il racconto di Marcello Staglieno procede sempre e costantemente sul filo di una impeccabile correttezza professionale ma è inevitabile che colui che dei fatti di cui va narrando lo svolgimento è stato spesso testimone ed altrettanto spesso testimone non secondario, non possa non intervenire con riflessioni ed aneddoti, frammenti di vissuto e percezioni personali che inevitabilmente trasmettono ai fatti l'increspatura e la vivacità di uno sguardo soggettivo e disincantato. E tanto più questo sguardo si fa penetrante quanto i protagonisti del passato si proiettano nella contemporaneità, come Oscar Maria Scalfaro e Azeglio Ciampi, gli ultimi due presidenti della Repubblica. Il giudizio sul primo gronda decisamente antipatia e spesso e volentieri sarcasmo. Scalfaro è per Staglieno il deputato integralista e codino, che, nel 1945, in qualità di pubblico ministero, chiese al Tribunale straordinario di Novara la condanna a morte di ben 8 imputati fascisti, dei quali uno soltanto ottenne la grazia nell'anno successivo. Una abitudine a schierarsi, con tutta l'indignazione della propria erre blesa, contro i vinti del momento che Staglieno, appassionato studioso di genealogie, ritrova nella prosapia del suo personaggio. Sino a risalire ai primi anni dell'Ottocento, quando un altro Scalfaro - Aloisio, per la precisione - che sempre si era distinto nella repressione dei moti antifrancesi in Calabria, al momento della caduta del Murat, ne divenne il suo più acerrimo accusatore. Al punto da firmare la condanna a morte del generale napoleonico, che solo l'anno prima l'aveva elevato al rango di barone.
Dunque, una tradizione di famiglia? Sembrerebbe proprio di sì, soprattutto se si esamina il comportamento del mariano e cattolicissimo presidente in occasione della caduta del governo Berlusconi del 1994. Si tratta di fatti noti, naturalmente, ma che Staglieno dipinge con i toni e le penombre di chi ha vissuto direttamente gli avvenimenti narrati. Berlusconi perciò con le sue seconde nozze diventa per il bigottissimo democristiano, che guarda con occhi di cerbero ogni trasgressione al vincolo del matrimonio ma che gli occhi li chiude entrambi quando si tratta di far svanire nel nulla, come il mago Zurlì, i denari del Sisde ( rammentiamoci il celebre «non ci sto» dell'epoca di tangentopoli), diventa - dicevamo - «il poco di buono di Arcore». Che occorre a tutti i costi precipitare dalla poltrona di presidente del consiglio che pure gli hanno assicurato gli italiani con il loro voto.
Cominciano così le triangolazioni con la magistratura, con le forze della sinistra, che Scalfaro per quanto marianissimo e cattolicissimo non ha nessuna esitazione trasformare in proprie alleate e soprattutto con l'ignaro Bossi, a cui il presidente della Repubblica fa comprendere come ormai Berlusconi sia finito e dunque da abbandonare all'istante, prima che trascini altri con sé nel baratro. A questo Tayllerand da sacrestia, manovratore meschino, per quanto avvolto da volute di incenso, Staglieno contrappone il suo successore, quel Carlo Azeglio Ciampi, livornese, governatore della Banca d'Italia e ministro del tesoro nel primo governo Prodi, capace comunque di coniugare l'ossimoro di essere, al tempo stesso, di formazione azionista e di fede cattolica. Agli occhi degli esponenti della Casa delle libertà, Ciampi possedeva comunque il grande merito di non essere entrato a far parte di quel disperato caravanserraglio ulivista, che Berlusconi avrebbe puntualmente sconfitto nel 2001. Sicché la sua al Quirinale diventava una sorta di candidatura di garanzia per quanti ben conoscevano le simpatie del nuovo presidente della Repubblica ma altrettanto bene erano al corrente del profondo senso dello stato - e non dello stato soltanto - che ne avrebbe ispirato il comportamento.
Ciampi non è stato, in realtà, soltanto un fedele servitore della cosa pubblica. La sua fede affonda le radici in quella memoria storica dello stato che si chiama patria. La terra degli avi, nata e giunta a piena coscienza di sé - secondo l'attuale inquilino del Quirinale - durante gli anni di quel risorgimento, che se si è rivelato come un'età discussa e discutibile, è stata però anche quella nella quale l'Italia avrebbe raggiunto la propria identità di nazione, al di là dei tanti particolarismi campanilistici. È la stessa idea che in fondo Marcello Staglieno non soltanto condivide e fa propria, ma che funge da struttura portante di questo suo ultimo saggio. I dieci presidenti, che si sono alternati in questi ultimi sessant'anni di storia repubblicana, costituiscono, infatti, altrettanti pilastri sui quali l'Italia, divenuta finalmente nazione, ha costruito la sua storia. Nessun otto settembre, dunque. Nessuna morte della patria. Anche negli anni bui del più profondo consociativismo cattocomunista, anche quando il solo sventolare la bandiera italiana in occasione di una vittoria calcistica veniva considerato come una pericolosa manifestazione di sciovinismo nazionalistico, ebbene, anche allora l'idea di patria era viva e presente ed era l'inquilino del colle a rappresentarla ed incarnarla.
L'approssimarsi perciò del referendum costituzionale del prossimo giugno non può non costituire per chi come Marcello Staglieno nutre simili convinzioni una data decisamente infausta. La vittoria infatti dei sì coinciderebbe con lo svuotamento della figura del presidente della Repubblica a tutto vantaggio di quella del presidente del consiglio. Un primo ministro certamente più autorevole ma non al punto da compensare con la propria centralità la spinta centrifuga che all'intera nazione imprimerebbe l'istituzione di un federalismo, che l'autore di questo saggio continua a considerare anarchico, nonostante il richiamo esplicito all'interesse nazionale. Che fare, dunque? Francamente l'impressione che desta la lettura del libro è quella di una stizzosa insofferenza, una sorta di rovesciamento di tavolo da parte di chi si sente, dopo aver profuso tante energie, fuori dei giochi.
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