Gli Usa e le statue abbattute: cosa c'è dietro la furia iconoclasta

Fin dalla loro nascita gli Stati Uniti sono stati percorsi dalla diatriba delle statue. Dai monumenti confederati a quelli della seconda guerra mondiale. Ecco la storia delle statue nel libro “I fastidi della Storia” di Arnaldo Testi

Gli Usa e le statue abbattute: cosa c'è dietro la furia iconoclasta
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La questione dei monumenti che occupano lo spazio pubblico negli Stati Uniti è sempre stata prettamente politica. Sin da quando Nathaniel Macon, deputato del North Carolina, espresse la sua volontà di non avere statue di George Washington nelle piazze americane. E che dire di quanto successo ancora prima nel luglio 1776, a pochi giorni dalla Dichiarazione d’Indipendenza, quando la statua di Re Giorgio III, eretta a New York nel 1770 come segno di benevolenza della Corona nei confronti delle Tredici Colonie, venne abbattuta da una folla di manifestanti. Un evento che venne salutato dal filosofo Thomas Paine come la “giusta disgregazione” della Corona per distribuirla “al popolo, al quale appartiene”.

Parte da questo evento fondativo il volume di Arnaldo Testi “I fastidi della Storia”, edito da Il Mulino, per analizzare con rigore storiografico una questione che troppe volte è stata dibattuta con superficialità, senza considerare lo scenario che hanno portato alla costruzione di certi monumenti. A cominciare proprio da quelli più controversi, quelli dedicati agli ufficiali confederati, eretti negli stati ex schiavisti non negli anni immediatamente successivi alla guerra, quando era ancora fresco il ricordo dei caduti. Bensì questi vennero costruiti negli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando veniva implementato il regime della segregazione razziale.

E quelle statue, quindi, servivano a siglare quel trionfo, come esplicitato dal monumento di New Orleans, in Louisiana, innalzato in onore della cosiddetta “battaglia di Liberty Place” del 1874, quando una milizia suprematista bianca si scontrò con le truppe federali: veniva riaffermata “la supremazia bianca”. Una scelta prettamente politica, dunque, accettata nell’ottica della cosiddetta “riconciliazione bianca”, fatta a scapito dei diritti promessi alla comunità afroamericana.

Difficile trovare una quadra al di là della polemica politica anche per commemorare i caduti delle guerre mondiali, riconoscendo il contributo di tutte le minoranze nello sforzo per difendere la democrazia, senza scadere nella vacua pomposità, come accaduto, secondo alcuni critici, per il memoriale dei caduti della Seconda Guerra Mondiale di Washington D.c inaugurato nel 2004 ma progettato negli anni ’90 nell’ottica di celebrare il trionfo degli Stati Uniti anche nella Guerra Fredda.

Una scelta completamente diversa, ad esempio, da quella del Vietnam Veterans Memorial sempre situato nella capitale federale, costruito nel 1982 per volere di una no-profit gestita da reduci del conflitto che ha scosso l’identità americana più di ogni altro. Niente statue qui, niente trionfalismi, niente marmo bianco: soltanto un lungo muro che contiene gli oltre 58mila nomi dei caduti in Indocina che commemora i caduti in modo composto e rispettoso. E del resto lo dicevano anche i Padri Fondatori come Thomas Jefferson, come notato da Testi, che una monumentalità repubblicana, che si volesse staccare con decisione dalla Madrepatria britannica, avrebbe dovuto adottare un modello per così dire iconoclasta, che celebrasse le idee anziché le persone. O quanto meno gli ideali che alcuni grandi fondatori avessero propugnato.

Così nel 1848 s’iniziò la costruzione di un obelisco dedicato a George Washington nella Capitale. Finito quarant’anni dopo, la sua pulizia stilistica e formale l’ha reso un monumento estremamente durevole. Perché anche i monumenti dedicati alle buone cause possono, col tempo, diventare problematici: è il caso del “Memoriale dell’Emancipazione” sempre sito nella Capitale, che raffigura Lincoln che libera uno schiavo in ginocchio, costruito nel 1876. Un’immagine che anche all’epoca colpì sfavorevolmente uno dei più grandi oratori afroamericani, Frederick Douglass, che si chiedeva perché lo schiavo non fosse in piedi.

La complessità degli intrecci e dei rapporti sociali interni alla società afroamericana, quindi, rende difficile celebrare con certezza qualcosa. Facilmente una statua può diventare oggetto di discussione, perché cristallizza una persona o un concetto e fatalmente ne esclude altre, che su quel palco non ci salgono.

Non sempre, per usare un’espressione citata da Testi, i monumenti sono “spine di pesce conficcate nella gola” di una città. Però a volte incarnano in modo anche troppo funzionale le controversie che hanno portato a farli erigere.

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