Lo stracciaiolo divenuto re del riciclo «Ho rottamato persino la “Pravda”»

A distinguere dal resto dell’umanità il Grande Riciclatore dell’Universo, alias il ragionier Masotina Giuseppe, detto Peppino, di anni 74, da Canosa di Puglia, è il punto di vista. Questione di imprinting: nella Milano della seconda guerra mondiale vide suo padre Giacomo, straccivendolo, raccogliere un grappolo d’uva marcia dalla fontana di piazza Bacone, lavarlo a una fontanella e mangiarselo, azione che egli definisce «il testamento spirituale di papà». Per cui ancor oggi, di fronte a una banana, mentre i comuni mortali pensano alla polpa, Masotina s’appassiona alla buccia. Meglio: a quello che viene prima. Un giorno stava appunto addentando una banana, affranto per averne dovuto gettare il tegumento nell’immondizia, quand’ecco l’occhio gli cadde sulla scatola che la conteneva. «C’era stampato sopra: “Made in Ivory Coast”. Mi dico: se è fatta in Costa d’Avorio, laggiù dev’esserci per forza lo scatolificio che la fa. Indago. Lo scatolificio c’è, e anche bello grosso. A dirigerlo è un certo Emissa, che però non mi vuol dare nemmeno un chilo di scarto cartaceo. Motivo: è ammanicato con un’azienda austriaca di import-export. “Se non mi dà un po’ di roba, vuol dire che c’è sotto qualcosa”, lo minaccio al telefono. “Venga a trovarmi”, mi risponde quello. Dopo un mese salgo su un aereo e volo ad Abidjan. E lì scopro che Emissa è morto. Mi metto a piangere: ohi ohi, che dolore, il mio amico Emissa... se solo avessi saputo, povero Emissa... mai sarei mancato al funerale. “Guardi che lo seppelliscono oggi”, m’interrompono i colleghi. Ah sì? Ma tu guarda la combinazione! E dove? “A Grand Bassam”. Da Abidjan sono una quarantina di chilometri. Corro. Tre ore di cerimonia sotto il sole. Un caldo della madonna. Le autorità locali fanno il panegirico di questo Emissa che manco conosco. Alla fine del rito funebre individuo gli altri dirigenti dello scatolificio e li affronto: “Signori, abbiate pietà! Datemi almeno due container di roba in memoria del mio amico Emissa”. Risultato: da 15 anni nei porti di Genova e Livorno mi arrivano dalla Costa d’Avorio residui di lavorazione per centinaia di tonnellate».
Milano, Lombardia, Italia, Europa, mondo intero per Giuseppe Masotina non sono che un’immensa discarica dalla quale pescare il meglio. Nella piattaforma industriale che ha costruito a Corsico, 60.000 metri quadrati, la più grande del continente, entra un autotreno o un camion ogni 20 secondi recandogli il bendidio: carta, plastica, metalli, vetro, legno, calcinacci. Tecnicamente si chiamano rifiuti speciali non pericolosi, assimilabili a quelli urbani, ma la sostanza non cambia: sono 50.000 tonnellate l’anno di spazzatura. La cernita meccanica, con benne che costano come miniappartamenti e nastri trasportatori che scalano empirei di sudiciume, riesce persino a restituire il terriccio inghiottito dalle spazzatrici stradali e a separare i sassi in base al diametro, cosicché il 60% di ciò che era stato buttato via tornerà a nuova vita con vari impieghi.
Ma da mezzo secolo il core business del gruppo Masotina è la carta da macero. In un anno ne produce 300.000 tonnellate. Il leader italiano del riciclo, fra i primi cinque gruppi privati del settore in Europa, si vanta d’essere riuscito con largo anticipo là dove le democrazie occidentali e la guerra fredda avevano fallito. C’erano ancora il Muro di Berlino e l’Urss quando distruggeva milioni e milioni di copie della Pravda e delle Izvestia, nonché i libri fuori catalogo degli editori di regime Molodaya Gvardia e Kniga. Per la faccenda dei punti di vista richiamata all’inizio, la medesima attività dev’essere stata interpretata come una benemerenza pure da Fidel Castro, e così per molti anni Masotina ha rottamato anche le rese del Granma, l’organo ufficiale del partito comunista cubano, che gli dedicò persino un servizio su tre colonne con tanto di foto. «Ora non ne vale più la pena: s’è ridotto a due foglietti in tutto. Però fra venti giorni devo tenere una lezione a Metanica, la conferenza mondiale sul riciclo che si svolge all’Avana». Insomma, può ben dire d’essere il re delle balle di carta, quelle da 800 chili che le sue presse mostruose, capaci d’esercitare una pressione pari a una tonnellata e mezzo, confezionano dopo che le maceratrici hanno ridotto a brandelli di 4-5 centimetri quelle scritte da noi cronisti.
Primo osservatore italiano al Bir (Bureau of international recycling) di Bruxelles, del quale è oggi vicepresidente, e componente dell’Osservatorio nazionale dei rifiuti presso il ministero dell’Ambiente, Masotina compra robaccia in tutto il mondo («come ho fatto a imparare le lingue? Volontà, volontà, volontà. Parlo il francese, anche dialettale, l’inglese, un discreto spagnolo e un pessimo tedesco») e vende il materiale riciclato che ne ottiene non soltanto in Italia ma anche in Cina, Indonesia, India, Tunisia, Siria, Francia e Germania. Da Cuba, oltre alle cataste intonse del Granma, probabilmente il quotidiano meno venduto e meno letto del pianeta, per un lungo periodo ha importato a 2.000 lire il chilo anche le lenzuola delle caserme e le vecchie divise dei pioneros («sterilizzate e tagliate, diventavano ottime pezze per la pulizia delle macchine industriali»). Il suo motto è: «Girare sempre. Se non concludi, vedi. E se non vedi, ascolti. Quindi qualcosa porti sempre a casa». Gli è persino capitato di rilevare una partita di documenti custoditi nei bunker sotterranei del Congresso americano, «ma ancora non capisco che bisogno c’era di chiamare proprio me: gli atti riservati erano già passati attraverso tritacarte talmente efficienti da essere ridotti in polvere più che in striscioline».
Gli incarichi societari del gruppo Masotina, che comprende anche le cartiere di Modena, Cologno Monzese e Borgo San Dalmazzo, sono democraticamente redistribuiti a turno dal ragionier Peppino tra i fratelli Saverio, 73 anni, Andrea, 69, e Franco, 42. Assoluta parità di rischio. Per un periodo è presidente il più vecchio, per un periodo il più giovane. Attualmente il primogenito s’è ritagliato il ruolo di amministratore delegato, «mica per altro: al giorno d’oggi un imprenditore ha un piede nella fossa e uno in galera», e intanto schiuma con grande accuratezza il caffè, depositando sul bordo del piattino la cremina che manda in visibilio i maniaci dell’espresso. Dev’essere una deformazione professionale.
Che cosa si considera?
«Uno stracciaiolo evoluto. Ogni giorno raccolgo 1.000 tonnellate di carta, 150 tonnellate di spazzatura del Comune di Milano e dei centri dell’hinterland, 80 tonnellate di plastica che diventeranno 150 da novembre. Il deferrizzatore toglie i rifiuti metallici, il nastro a corrente negativa spara fuori le lattine in alluminio, il vaglio rotante separa le frazioni pesanti da quelle leggere, l’impianto a fibre ottiche suddivide le varie qualità di plastica per polimero e per colore».
La carta da dove arriva?
«Farei prima a dirle da dove non arriva. Ricevo l’invenduto da Mondadori, Rizzoli, De Agostini, Stampa, Giorno e molti quotidiani statunitensi, dal New York Times in giù; i cartoni da Esselunga, Ikea, Metro, Carrefour, Amsa; gli scarti da RR Donnelley & Sons, che è il più grande rilegatore del mondo. Disinchiostrata e sbiancata con l’ossigeno, la carta da macero sarà trasformata in bobine per la stampa dei giornali».
Qual è la percentuale di recupero?
«Dell’85% per la carta dei quotidiani, del 70% per quella patinata».
Sono soldi.
«La prima vale 75 euro la tonnellata, la seconda 67-70. I libri un po’ meno: 60-65».
Ma come fa ad aggiudicarsi le commesse in giro per il mondo?
«Da anni me le vado a cercare. C’era una bellissima tipografia a Riad, in Arabia Saudita. Ottenuto il visto, mi sono recato laggiù. E ho visto l’oro! Montagne di carta bianchissima gettate nel deserto. Purtroppo allora non esistevano trasporti marittimi convenienti. Già che stavo lì, tanto valeva andare in Somalia. Sapevo che a Chisimaio c’era uno scatolificio. All’aeroporto di Mogadiscio, una baracca, sparavano. Ho regalato il dopobarba che tenevo nel bagaglio a mano, spacciandolo per acqua di colonia, a una funzionaria che mi aveva sequestrato la valigia in un hangar. Il primo aereo per Chisimaio partiva dopo due giorni. Troppi. Ho preso a noleggio una Land Rover con autista nero. Novecento chilometri di sobbalzi fra andata e ritorno. Un solo pasto a Gelib: carne di cammello pescata da un pentolone messo a bollire in mezzo alla strada. L’autista ne staccava un pezzo a morsi, saggiava la consistenza sotto i denti: se era troppo dura, ributtava il taglio di carne nella brodaglia e s’avventava su un altro. Un facocero ci ha caricati a testa bassa: fortuna che s’è rotto il grugno contro il mozzo della ruota, altrimenti avremmo capottato. Siamo incappati due volte in un’imboscata di guerriglieri. Mi tenevano la canna del kalashnikov premuta sul collo. M’avevano scambiato per un trafficante d’armi».
Come se l’è cavata?
«Ho scucito la fodera della valigia e ho distribuito un po’ di rivistine con donne nude che avevo salvato dal macero prima di partire dall’Italia. Finalmente arrivo a Chisimaio. Infilo la mano nella carta straccia per saggiarne la qualità: era infestata dai serpenti».
A che età ha cominciato?
«A 12 anni già aiutavo mio padre a spingere il carretto per le vie di Milano. Ricordo ancora l’itinerario: via Pietro Custodi, viale Col di Lana, viale Bligny, viale Sabotino, piazza Medaglie d’Oro. Qui papà si fermava all’agenzia della Banca popolare e da un librettino di risparmio color arancione prelevava i quattrini per pagare le massaie. Andavamo di cortile in cortile, urlando “strascée, strascée”. Chi ci dava un paio di pantaloni vecchi, chi una forchetta storta. Papà pesava e pagava in contanti. Poi si riprendeva il giro: via Muratori, via Calvi, via Sciesa, corso di Porta Vittoria, Santa Maria del Suffragio, via Bonvesin de la Riva, via Fiamma».
Attraversavate tutta la città.
«Momento, non ho finito: via Bronzetti, via Morgagni, piazzale Bacone, viale Abruzzi, piazzale Loreto, via Padova. Capolinea in via Ponte Nuovo. Si girava il carretto e lo si riportava stracolmo a casa, sempre a forza di braccia. Così tutti i giorni, dal ’37 al ’46».
Quando arrivò suo padre a Milano?
«Nell’ottobre del ’37. A Canosa aveva un forno dove le donne portavano a cuocere il pane fatto in casa. Venne quassù, ospite di uno zio calzolaio, e scoprì che si guadagnava il doppio. Tornò e disse a sua moglie: “Dobbiamo vendere il forno, il mobilio, tutto, e salire al Nord. Ho deciso di dare un futuro ai nostri figli”. Lei piangeva, non voleva partire. Bisognerebbe farlo raccontare a mia madre Rosa».
Quanti anni ha?
«Ne fa 98 a novembre. Una roccia. Ha passato la vita a caricarsi quintalate di carta sulle spalle. Papà invece è morto nell’88. “Ricordatevi che io non ho mai disonorato il sacramento del matrimonio, mai!”, ci ripeteva orgoglioso. Ha avuto solo famiglia e lavoro, nient’altro. Non come me, che sono stato ammesso nella Società del Giardino. Un bel biglietto da visita per uno straccivendolo, no? Le patacche fanno parte del bagaglio perbenistico dell’individuo. Ma al club lascio solo la macchina in parcheggio. Non ho tempo per la vita di società».
Se lo sarebbe mai aspettato questo successo?
«Be’, un po’ sì. A 9 anni passavo sempre davanti a una bella villa in via Vetere. Nel giardino vedevo un bambino. Lei sa quanto riescono a essere crudeli i bambini, a volte. Il ritornello era sempre lo stesso: “Terùn, va’ al tò paès!”. Dentro di me pensavo: boia d’un can, quando sarò grande la voglio anch’io una villa così».
Ce l’ha fatta.
«Amo il Foscolo. Ha presente i Sonetti? “Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge”. Qui nel petto mi ha sempre ruggito. Nel dopoguerra vidi un lampione stile Liberty in ferro battuto nel magazzino di Callisto Galletti, rigattiere in via Santa Sofia. Me lo regali?, gli chiesi. “Pepino, per quest chi ghé vor una villa”, ribatté lui. Tu intanto dammelo, che se il buon Dio mi aiuta un giorno ci metterò intorno la villa, risposi. E così è stato. Oggi il lampione ce l’ho in giardino».
È stata dura integrarsi con i milanesi?
«I milanesi sono molto generosi. Ma noi eravamo gli extracomunitari degli Anni 30. Vivevamo in sei, come maiali, al numero 2 di via Gaudenzio Ferrari, zona Porta Genova. Due sole stanze. Poi ci allargammo: quattro locali bui, col soffitto basso, in via Vetere 10. Ci siamo rimasti per 25 anni. A scuola non portavo né il fiocco azzurro né il colletto inamidato, perché i miei non potevano comprarmelo. La maestra era cattivissima. Mi conficcò una matita nel collo, lo vede qua?, ho ancora la cicatrice».
Una kapò.
«Chiedeva agli alunni: “Che mestiere fa tuo padre?”. Il figlio dell’operaio rispondeva: “Capo operaio”. Il figlio dell’impiegato: “Capo ufficio”. Erano solo capi, i padri degli altri. Arrivato il mio turno: straccieio ambulente, con l’accento pugliese. Ridevano tutti. Quando la presa in giro è così feroce, lei non ha idea di quale forza d’animo t’infonde».
Ha sofferto molto.
«Ho sofferto, sì. Rammento che un giorno, dopo che la mia famiglia si era trasferita dal primo tugurio al secondo, dissi a mia madre: lo sai, mamma, che adesso i bambini mi trattano come se fossi uguale a loro? Glielo dissi con estrema naturalezza, mi sembrava la cosa più normale di questo mondo. Solo oggi, al ripensarci, rabbrividisco».
Quand’ebbe la percezione d’avercela fatta, d’essere arrivato?
«Mai, mai. Il giorno in cui mio padre annunciò a noi figli che presto avremmo sostituito il carretto con un Leoncino, accadde l’irreparabile e dovetti ricominciare tutto daccapo».
Che accadde?
«Era il 15 aprile del 1955, un venerdì sera, lo ricordo come fosse oggi. Io tornavo dal cinema Rialto. Trovai mia nonna in lacrime sull’uscio di casa: “Corri, Peppino, corri. Sta bruciando tutto”. Arrivai trafelato in via Riva di Trento, dove avevamo il deposito. Le fiamme rischiaravano il cielo. Mio padre e mia madre piangevano abbracciati sul marciapiede. Non ci restava più nulla. Il lunedì successivo firmai due cambiali da 20.000 lire, comprai un motorino Parilla 49 e ripresi la raccolta con più slancio di prima. Ecco perché dico sempre che posso essere d’aiuto a chi cade in disgrazia. Se sono arrivato fin qui, è stato grazie a quell’incendio».
Non teme che i giornali vengano soppiantati da Internet? Avrà letto l’Economist: pare che l’ultimo quotidiano chiuderà nel 2043. Addio carta da macero.
«La carta non morirà mai. Non c’è attimo della nostra vita che non sia segnato dalla carta. Scusi tanto, non diciamo sempre che siamo sommersi dalle carte? La Tv ha forse ucciso il cinema? No. E allora! Gli orologi digitali hanno forse soppiantato quelli svizzeri a carica manuale?». (Picchia l’indice sul quadrante di un Vacheron Constantin degli Anni 30).
Vede qualcosa che va sprecato nelle nostre case?
«L’energia. Basti pensare a quanto consumano gli elettrodomestici tenuti in stand by. Un delitto. Se qui dentro non ci fossi io la sera a fare il giro degli uffici per spegnere le luci...».
Lei non butta via proprio nulla?
«Nel ’44 per salvarci dai bombardamenti sfollammo vicino a Casteggio. Papà arrivava in bici da Milano il sabato sera con 35 chili di pentole di rame schiacciate da vendere ai contadini, che aggiungevano acido solforico e ottenevano così il verderame per le vigne. Col ricavato mi comprò una fisarmonica a Stradella e mi mandò a lezione dal maestro Guglielmo Bonfoco. Pagò lo strumento 12.400 lire. Un sacrificio enorme. Le cinghie erano fatte con le giberne di un poliziotto. Ce l’ho ancora. Il sabato sera mi ritrovo a suonarla».
Si considera un ambientalista?
«Direi di sì, ma non accanito. Ho tre figli e sette nipoti.

Ce la sto mettendo tutta per lasciargli un mondo più pulito di come l’ho trovato. Guardo quest’oceano di rifiuti e il mio vanto è di poter dire a ciascuno di loro: tutto questo un giorno non sarà tuo».
(346. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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