LA STRAGE DI ERBA

nostro inviato a Como

Gli occhi e le mani. Le mani e gli occhi. Non saranno lo specchio dell'anima, forse, ma sono certamente le impronte che lascia un uomo in gabbia. Anzi quell'uomo, Olindo Romano. Lo sguardo e le mani. La distanza abissale tra lui e il mondo esterno, racchiusa in pochi centimetri, che diventano per quell’uomo il suo Miglio verde. Da percorrere e ripercorrere. Spargendo lungo quel percorso ossessivo e sconcertante un’espressione che è stata spesso, anche ieri che si approssimava l'epilogo giudiziario della sua vicenda, priva di alcuna espressione.
È un privilegio concesso a pochi osservare, spiare Olindo il «mostro» dietro la sua ragnatela di sbarre. Intendiamoci, uno di quei privilegi di cui si fa volentieri a meno. Ma nel nostro mestiere e nel caso specifico dove fotografi e operatori televisivi sono tenuti fuori dall'aula, è un privilegio troppo prezioso da sprecare senza almeno sforzarsi di annotare, spiare, decifrare ogni sua mossa. Di tradurre a distanza ravvicinata, prima che l’udienza cominci: le uniche parole sussurrate a Rosa che il suo labiale tradisce: «Sei sicura? Chi te lo ha detto? A parte il superteste non lo fa nessuno... Ma lui è assente, non dice niente oggi... tranquilla...». Radio carcere dice che Olindo da un po'di tempo non volesse più dedicarsi alla cura della sua persona. Non volesse nemmeno più lavarsi. Ma il ravvedimento, almeno un ravvedimento in quest’agghiacciante vicenda, dev’essere pure arrivato se ieri ha abbandonato il suo frusto maglione marrone per indossarne uno nuovo grigioblu con una zip vagamente trendy. Così il look non ne patisce, e nemmeno lui. Lui che quando l’avvocato Tropescovino legge la lettera in cui il suo assistito, Azouz Marzouk, padre di Youssef e marito di Raffaella chiede per Olindo e Rosa «un ergastolo senza Dio», non trova di meglio che guardarsi le mani. Uno dei suoi vezzi: contemplarle, stiracchiandole per bene, come se dovesse presentarsi di lì a poco al cospetto della manicure. E non di una sentenza. La slavina di parole gravi che riecheggia in aula non riesce a penetrare nel suo bozzolo a due piazze. A inumidire i suoi occhi impermeabili all'emozione. Eppure quegli occhi, almeno nel momento della strage, dovevano avere qualcosa di più di un fremito, se il suo sguardo, come ricorda in aula l'avvocato Gabrielli, ha segnato indelebilmente il ricordo del suo accusatore, Mario Frigerio, il sopravvissuto: «... non mi dimenticherò mai quella faccia. Mi guardava con due occhi d'assassino, uno sguardo strano. Tenendomi per il collo continuava a picchiarmi, non so se fossero pugni, calci o altro...». Parole che lui, Olindo ricambia con uno sguardo da pesce lesso. E quello sguardo decotto sguscia dalla sbarre e va oltre. Oltre la corte, gli avvocati, oltre il pubblico. Per quell’Olindo, seduto di sbieco diventano trasparenti i fratelli di Frigerio, che tengono la testa bassa, e diventa trasparente Azouz, i Castagna. Lo sguardo vaga su di loro senza vivacità. Dagli occhi alle mani. Alle 11.20, Olindo si alza per deporre. Aggiusta il microfono come un anchorman e chiede «si sente?». Adesso che è seduto le mette avanti le mani. Come faceva la sua Rosa quando voleva tener fuori i giornalisti a caccia di verità nelle mattine di due anni fa.

Mani che parlano più delle sue parole rattoppate. Il primo e unico bagliore negli occhi è solo per vigilare, per tener distante, adesso che per un attimo è uscito dalla sua ragnatela, il mondo. Quel mondo che lui osserva, ma non vede.

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