Strage talebana a Kabul Lo 007 muore da eroe e salva quattro italiani

«In situazioni del genere puoi solo pregare o reagire, Pietro ha scelto la seconda ed è morto facendo il suo mestiere». Così un vecchio amico, suo compagno di missione per due anni, racconta a Il Giornale la morte di Pietro Antonio Colazzo, l’agente dei servizi segreti ucciso dai terroristi talebani mentre trasmetteva alla polizia afghana informazioni fondamentali per soccorrere numerosi altri stranieri tra cui quattro nostri connazionali.
L’attacco costato la vita all’agente sotto copertura (ufficialmente era consigliere diplomatico) e ad altre 16 persone - tra cui un francese, nove medici indiani e sei afghani, quattro dei quali poliziotti - scatta alle 6 e 30 del mattino. A quell’ora l’area commerciale di Shar I Naw è deserta. Intorpidita da una pioggia sottile, avvolta nel letargo doppiamente sacrale del venerdì e del genetliaco di Maometto, Kabul dorme sonni profondi. Le uniche finestre illuminate sono quelle della pensione Arya, nascoste dall’enorme facciata in vetro e acciaio del centro commerciale Safi Ladmark e del Park Residence Hotel. Nella guest house un gruppo di medici volontari indiani prepara la missione quotidiana. Probabilmente sono l’obiettivo primario di un attacco messo a segno da un gruppo alleato dei talebani e commissionato da apparati deviati dei servizi segreti pakistani. Negli ultimi tempi il Pakistan sembra aver rinunciato all’ambigua politica di complicità catturando il braccio destro del Mullah Omar e una ventina di suoi luogotenenti talebani. La sera precedente, inoltre, si sono svolti i primi colloqui diretti tra Islamabad e Nuova Delhi dopo le stragi di Mumbai messe a segno da terroristi pakistani alla fine del 2008. Colpire un obiettivo indiano può servire a stroncare la nuova politica del governo di Islamabad.
Nella Kabul sonnacchiosa nessuno s’aspetta l’affondo. Davanti al Safi Landmark Center le guardie mezze appisolate attendono solo la fine del turno. All’improvviso i fari di due Toyota Corolla tagliano il grigio della pioggia. Sei uomini armati balzano in strada, aprono il fuoco. Le sentinelle cercano inutilmente di bloccare gli assalitori. Quel primo crepitio di battaglia è subito cancellato da un boato assordante. Una delle due Corolla esplode davanti all’Arya Guest House, fa strage di medici indiani. «All’inizio degli spari ero nel bagno, ho cercato di uscire, ma pochi istanti dopo è arrivata l’esplosione e il soffitto mi è crollato in testa» racconta il medico indiano Subodh Sanjivpaul. Al piano terra della guest house sventrata nove suoi colleghi agonizzano tra le rovine.
Pietro è gia in piedi nella sua stanza del Park Residence situato agli ultimi due piani del Safi Landmark Center. Capisce immediatamente. È un veterano e l’Afghanistan da qualche anno è la sua seconda patria. «Pietro aveva sui 47 anni, non proveniva dalla carriera militare, era un entusiasta conoscitore di Paesi islamici e si era appassionato alla cultura del Paese imparando le lingue locali e stringendo amicizia con i colleghi del posto», racconta a Il Giornale il collega dell’Aise (l’ex Sismi). Dalla finestra Pietro osserva il combattimento, individua le posizioni dei talebani, spiega agli altri ospiti - tra cui altri quattro italiani - dove attendere i rinforzi. Poi s’avventura nei piani inferiori e chiama i suoi contatti nelle forze di sicurezza afghane. Ora è pochi metri sopra il cuore della battaglia. È un occhio fondamentale per spiegare ai soccorritori come evitare il fuoco nemico e salvare i civili bloccati nell’albergo. Ma i talebani sono già dentro il centro commerciale, preparano la seconda fase dell’attacco affidata a una seconda coppia di attentatori suicidi. Quella tattica è il segno distintivo del clan Haqqani, il gruppo alleato dei talebani guidato da Jalaluddin Haqqani, leggendario comandante della guerra ai sovietici, e dal figlio Sirajuddin. Grazie ai contatti con i vertici militari di Al Qaida intessuti nel Waziristan settentrionale, zona d’origine del clan, gli Haqqani utilizzano gli attentatori suicidi come una sofisticata arma di teatro da dispiegare ad ondate successive assieme ad auto bomba e combattenti convenzionali.
Mentre Pietro parla con la polizia un kamikaze si fa saltare in aria nel piano terra del centro commerciale. Costretto allo scoperto dall’esplosione viene individuato e colpito nell’ultima fase di una battaglia durata quasi un’ora.

Il primo a riconoscerne il coraggio e l’importanza del sacrificio è il generale Abdul Rahman, capo della polizia di Kabul e amico del funzionario Aise. «Pietro – dichiara il generale - era un uomo coraggioso e ci ha garantito fino all’ultimo le informazioni indispensabili per mettere in salvo altri quattro italiani».

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