Ma che strana parabola di popstar, quella di Tina Turner. Era diventata la più famosa di tutte dopo un decennio, gli Ottanta, nel quale aveva infilato successi uno dietro l’altro, successi che ancora oggi riconosci al volo come The best (cover dell’originale di Bonnie Tyler) o What love got to do with it o ancora We don’t need another hero. Poi decise di ritirarsi e si ritirò davvero, caso più unico che raro, sparendo per sempre dai riflettori salvo qualche rarissima apparizione pubblica come quando pubblicò nel 2018 l’autobiografia per HarperCollins e si raccontò alla stampa qui e là. Se ne è andata «serenamente», come riporta il suo portavoce, ma non ha vissuto di certo serenamente, un dolore che ha segnato anche le scelte professionali di questa «pantera nera» nata a Brownsville, nel Tennessee nel 1939 quando l’ombra del Ku-Klux-Klan era ancora lunga. A dieci anni Anne Mae Bullock (il suo vero nome) era già corista nella chiesa del padre pastore, a diciassette, dopo la separazione dei genitori, incontra il suo primo inferno, a St Louis: si chiamava Ike Turner, sarebbe prima diventato suo marito e poi schiavo della cocaina. La insultò sempre, la picchiò per anni. Le botte da una parte e i successi dall’altra visto che Ike&Tina Turner volarono molto alti in classifica con brani come Proud Mary (cover dei Creedence Clearwater Revival) e anche Nutbush city limits che poi diventò il loro addio alle scene e al matrimonio. Una sera del 1976 Ike, pieno di droga e psicofarmaci, la aggredì prima di un concerto e allora lei lascò l’albergo, sparì, non tornò mai più indietro: «In tasca avevo un solo dollaro» ricordava spesso. A differenza di altre donne, anche dello spettacolo, Tina Turner non nascose mai queste violenze, ne parlò nelle interviste e anche nelle canzoni, diventando una delle prime a rendere pubbliche vicende private che fino ad allora erano quasi sempre state tenute sotto il tappeto dell’ipocrisia o della convenienza. Lei no, era un uragano sia sul palco che nello stesso modo di cantare, irruento, tiratissimo, con una voce d’ebano che grondava tradizione black. La sua rinascita coincise con la rinascita del pop negli anni Ottanta, quello scintillante delle megaproduzioni, dei primi video di Mtv, della globalizzazione vera della musica leggera. Tina Turner è una delle prime popstar planetarie e al Live Aid del 1985, in un JFK Stadium di New York strapieno di centomila persone, cantò con Mick Jagger una delle più belle versioni di It’s only rock’n’roll dei Rolling Stones e lei con la voce pungente di fianco a lui a petto nudo sono diventati una delle foto più belle del decennio. Ma la vita privata di Tina Turner non è mai stata «solo rock’n’roll», anzi. Oltre alle violenze di Ike, è stata devastata dalla morte di due figli, Craig Raymond, suicida nel 2018 e Ronnie giusto l’anno scorso nel 2022 ed è pure stata pedinata da tante malattie. Dopo le nozze con Erwin Bach nel 2013 ebbe un ictus, poi un tumore all’intestino e infine ricevette un rene dal marito nel 2017. Era la Tina Turner privata e isolata dai riflettori, quella che viveva in una bella villa a Küsnacht vicino a Zurigo. Quando ricevette la cittadinanza svizzera, Tina tagliò ancora una volta bruscamente con il passato e rinunciò alla cittadinanza americana. Era il 2013 e questa gigantesca interprete era già in «pensione» da qualche anno visto che aveva pubblicato l’ultimo disco nel 1999 (Twenty Four Seven) e aveva fatto l’ultimo concerto nel 2009. In tutta la sua carriera, ha incontrato e duettato con i più grandi, da Bryan Adams a David Bowie, Mark Knopfler, Phil Collins, Eric Clapton e Steve Winwood fino ai nostri Ramazzotti ed Elisa. Ha recitato in film che sono passati alla Storia, come ad esempio Tommy del 1975 e pure in quel Mad Max con Mel Gibson che è un altro simbolo degli 80. E fece pure televisione apparendo qui e là fino alla serie Ally McBeal.
Era immediatamente riconoscibile, Tina Turner. Aveva le fondamenta soul di chi è nato ed è cresciuto nella pancia degli Stati Uniti. Ma aveva anche l’attitudine rock di chi era sempre stato nel posto sbagliato, di chi aveva combattuto per diventare una star femminile in un’epoca nella quale le star erano soltanto, o quasi, maschili.
Perciò oggi è semplicemente andata a prendersi il suo posto naturale, non quello consegnato dai milioni di copie vendute o dai dodici Grammy Awards. Il posto di una cantante simbolo che ha aperto la strada e fatto scuola a tantissime altre dopo di lei come Beyoncé, tanto per citarne una, altrettanto furiosa nelle interpretazioni quanto caparbia nella costruzione di una carriera.
Una come lei, come Anne Mae Bullock che scappò dal primo marito portandogli via la credbilità e il cognome, si riassume prevedibilmente nel ritornello «simply the best» ma pure nella furia di Nutbush city limits che cantava sempre come se avesse il fiatone della continua fuga dal dolore.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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