Sul ponte della morte tramonta la riconciliazione sciiti-sunniti

Funerali di massa per le vittime della tragedia di Bagdad. Cresce l’ostilità fra le due etnie irachene

Gian Micalessin

Sotto il ponte di A’aimma i soccorritori continuano a setacciare le acque limacciose del Tigri. E lì sull’argine s’ammassano i cadaveri. Come negli ospedali, nelle moschee, nei parcheggi e nelle strade. Cadaveri di donne e bambini soprattutto. Cadaveri raccolti e infilati, quando ci sono, nei camion frigo fatti arrivare al fiume. Quando anche i camion finiscono ci si accontenta di una tenda di fortuna, di una coperta, di un telo di nylon. Su quel ponte, mercoledì mattina, una folla impazzita di pellegrini sciiti ha calpestato, spiaccicato, annegato nel fiume i più deboli e i più sfortunati.
Di fronte alla tragedia l'Irak per ora litiga e si divide. E i ministri del governo non riescono neppure a mettersi d'accordo sul numero dei morti. «Ci sono 953 cadaveri e 815 feriti», annunciava il ministro degli Interni. «Non è vero i morti sono 843 e i feriti 439», ribatteva stizzito il portavoce del ministero della Sanità Qassim Yahya. Alla fine dopo ore di discussioni è arrivata l’«intesa» su un bilancio di 965 vittime. È comunque un bilancio provvisorio. Secondo i soccorritori, quando il Tigri restituirà tutti i cadaveri la cifra finale supererà le mille unità.
Centinaia di corpi avvolti nei sudari bianchi e folle disperate attraversano intanto le strade di Sadr City, l'immenso quartiere di Bagdad residenza di almeno due milioni di sciiti. Tutt’attorno governo e nazione irachena sono sempre più spaccati. Le accuse e le ricostruzioni rivolte a provare la responsabilità dei gruppi sunniti nella più grande catastrofe dalla caduta di Saddam Hussein minacciano di rendere irreversibile la frattura del Paese. Anche ieri molti esponenti sciiti del governo di Ibrahim Jaafari hanno ribadito la tesi del complotto, del disastro innescato deliberatamente diffondendo voci sulla presenza di attentatori suicidi tra la folla. «Un terrorista - continua a ripetere il ministro degli Interni Bayan Baker Solagh - ha puntato il dito contro una persona gridando che si trattava di un attentatore e questo ha innescato il panico». A queste voci si aggiunge la rivendicazione di Jaiech Al-Taifa Al-Mansura (Esercito della comunità vittoriosa), un gruppo terroristico vicino ad Al Qaida secondo il quale l’attacco a colpi di mortaio alla moschea è stato «una punizione per il genocidio dei sunniti».
Lo stesso Jaafari non ha rinunciato a puntare il dito contro le formazioni sunnite. «D'ora in poi colpiremo ancor più duramente gli assassini, i militanti radicali e gli ultimi fedeli di Saddam», ha annunciato il premier. Più moderato il suo portavoce Laith Kubba che si limita ad attribuire la tragedia al caos e alla disorganizzazione. Il premier iracheno ha comunque annunciato un’indagine per accertare le cause del disastro e ha promesso alle famiglie in lutto un indennizzo di 1850 euro circa per ciascuna delle vittime. Il lutto non ha invece impedito al ministro della Sanità Abdul Mutalib Mohammad Alì di lanciare una polemica sui soccorsi e chiedere le dimissioni del ministro degli Interni e di quello, sunnita, della Difesa.
A tutto questo s’è aggiunta ieri pomeriggio una sparatoria tra le due sponde del Tigri collegate dal ponte della tragedia. Per alcune decine di minuti, mentre sugli argini si cercavano i corpi delle vittime, i miliziani sciiti arroccati nel quartier occidentale di Al Kadhimiya e gli armati sunniti nascosti in quello orientale al Aadhamiya si sono scambiati raffiche di fucile mitragliatore. L’ultimo rimasto a invocare calma e moderazione sembra l’ayatollah Alì al Sistani. «Tutti gli iracheni - ha detto ieri - devono serrare i ranghi e non offrire opportunità a chi punta solo a provocare disordini». Ma i richiami della più alta autorità religiosa sciita sembrano parole al vento. Nei quartieri sciiti la tragedia è percepita come la fine di ogni possibile riconciliazione. I colpi di mortaio sparati sul santuario di Al Kadhimiya prima della tragedia dai quartieri sunniti sono considerati la vera origine della catastrofe. Senza quell’attacco e i sette morti di qualche ora prima, dicono gli sciiti, non vi sarebbe stato né panico né tragedia.

Migliaia di uomini e donne in lutto stanno intanto raggiungendo la città santa di Najaf per seppellire i loro cari nel Wadi al Salam - il cimitero della «valle della pace» vicino al santuario dell’Imam Ali - considerato una via d’accesso privilegiata per il paradiso.

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