di Bersani, convinto che «per quello che fa, non posso ritenerlo un governo di sinistra o di centrosinistra ».
Intendiamoci: la divisione fra le due anime del partito precede la nascita stessa del Pd. Da sempre a sinistra ci si divide fra innovatori e conservatori.
La nascita del governo Monti, che Bersani ha accettato soltanto dopo le pressioni esterne del Quirinale e quelle interne di D’Alema, non ha fatto che accentuare questa contrapposizione: da una parte gli entusiasti, che vedono in Montil’archiviazione definitiva dello scellerato patto di Vasto con Vendola e Di Pietro, e dall’altra i tiepidi, che fanno buon viso a cattivo gioco e contano di tornare presto all’alleanza di prima.
Ora Veltroni, con una nettezza che lascia presagire nuovi sommovimenti a Largo del Nazareno, è uscito allo scoperto proponendosi, di fatto, come il leader del Pd montiano intenzionato a dar battaglia al Pd frontista. «Qualcuno dice Veltroni senza far nomi, ma con una chiara allusione alla segreteria bersaniana- dà giudizi tali da rischiare il paradosso di consegnare al centro o al nuovo centrodestra il lavoro del governo. È un errore grave. Questo governo tecnico ha fatto in tre mesi più di quanto governi politici abbiano fatto in anni» (compresi, par di capire, quelli dell’Ulivo). Per il fondatore del Pd, al contrario, il partito «dovrebbe sfruttare questa immensa occasione per rilanciare un grande programma riformista e dire agli italiani che non torna nulla del passato, compresi i governi rissosi dell’Unione».
Il fatto è che Bersani sta lavorando proprio a una riedizione di quelle coalizioni, e non intende liberarsi delle catene che lo tengono legato a Vendola e Di Pietro, ieri in nome dell’antiberlusconismo e oggi, a quanto pare, in nome di una presunta riscoperta delle nobili ragioni della socialdemocrazia (che sarebbero poi quelle dell’intervento statale sempre e comunque). A questa deriva, troppo simile alla scelta occhettiana dei Progressisti, che nel ’94 spianò a Berlusconi la strada di palazzo Chigi, Veltroni intende reagire e opporsi.A cominciare dalla riforma dell’articolo 18.
Qui, i toni dell’ex segretario del Pd e dell’ex presidente del Consiglio sono singolarmente simili: per nessuno dei due può essere un tabù. «Sono d’accordo col non fermarsi di fronte ai santuari del no che hanno paralizzato l’Italia per decenni- sostiene Veltroni- bisogna cambiare un mercato del lavoro che continua a emarginare drammaticamente i giovani, i precari, le donne e il Sud. Ci vogliono più diritti per chi non ne ha nessuno ». E Berlusconi, l’altro giorno: «Spero che Monti riesca a rendere più flessibile il mercato del lavoro e a realizzare un’effettiva libertà di concorrenza per restituire competitività all’Italia». Per Bersani, al contrario,«l’articolo 18 ha poco o nulla a che fare con i problemi che ha adesso il mercato del lavoro », e dunque si può tutt’al più pensare a una sua «manutenzione », ma soltanto «alla fine del percorso ».
Bersani con la Camusso, Veltroni con Berlusconi? Per paradossale che possa sembrare, una logica governa la battaglia politica di questi mesi. Berlusconismo e antiberlusconismo-le due categorie extrapolitiche che hanno inchiodato l’Italia per quasi un ventenniooggi non hanno più motivo di esistere, se non nella mente offuscata degli ultrà, e la politica può riprendersi lo spazio che le compete: discutere, affrontare e risolvere i problemi. Qui la distinzione fra i riformisti e i conservatori, fra i liberali e gli statalisti è assai più importante delle appartenenze a unsistema dei partiti che ha vistosamente fatto naufragio.
Non stupisce dunque che, sull’articolo 18 come su altri temi, gli innovatori del Pd e del Pdl vadano d’accordo. Del resto, è proprio questa la caratteristica fondativa del governo Monti. Il punto è un altro, e riguarda il Pd: quello di Veltroni è al governo e ci resterà. E quello di Bersani?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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