C'è un uomo a Bariloche, ai piedi delle Ande argentine. Ogni mattina raggiunge la scuola tedesca dove insegna, in questa città che a tratti sembra una piccola Baviera, fa lezione ai ragazzi e poi torna a pranzare a casa con la moglie. Vive la sua vita tranquilla a Bariloche da quasi cinquant'anni, stimato, rispettato.
Ma un giorno, nell'aprile del 1994, fuori da quella scuola trova ad attenderlo una troupe televisiva della ABC arrivata dagli Stati uniti. Lo chiamano: «Signor Priebke?». Si gira, indossa un cappello, una giacca grigia, un maglione con lo scollo a V e una maglietta col colletto. Il giornalista Sam Donaldson lo pressa per non dargli il tempo di reagire. «Lei era nella Gestapo. giusto? A Roma?» L'uomo rimane impassibile, sembra non capire. Poi annuisce. Ed inizia a rispondere alle domande su ciò che è avvenuto alle Fosse Ardeatine. A trincerarsi nella scusa che forse si era ripetuto da solo decine e decine di volte: «Erano gli ordini che avevamo ricevuto, c'era la guerra, queste cose succedevano, gli ordini erano quelli». A quel punto seppure con molta lentezza le artorità argentine diedero corso al mandato di arresto che ancora pendeva sulla sua testa e Priebke, alla fine venne estradato in Italia il 21 novembre del 1995. Il resto di questa lunga storia giudiziaria, che ha cercato di portare giustizia su una strage che nessuna giustizia può sanare, è noto e tutto in cronaca.
Ma come ha fatto Erich Priebke, il capitano della polizia tedesca che il 24 marzo 1944 con monotona precisione scandiva i nomi e i cognomi dei 335 uomini (ma alcuni erano solo dei ragazzini) da condurre all'interno delle Fosse Ardeatine per essere stroncati con un proiettile alla nuca, a fuggire in Argentina e vivere per mezzo secolo senza che nessuno gli chiedesse ragione dei suoi crimini?
Attraverso un lavoro di ricerca, portato avanti con acribia e passione, il giornalista e podcaster Antonio Iovane in Il carnefice (Mondadori, pagg. 440, euro 21) racconta questa complessa vicenda da tre prospettive. Quella della cattura del vecchio nazista, l'estradizione e i processi in un Paese profondamente diviso tra chi chiedeva giustizia e chi invocava clemenza per un uomo ormai anziano. Quella della carriera di Priebke a Roma, del suo ruolo di predatore di partigiani e della fuga, che ha dell'incredibile, in Argentina dopo la caduta del Reich. E, infine, una storia di radici, quelle dell'Italia di oggi, con le sue contraddizioni e i suoi antagonismi mai superati che una vicenda come quella dell'attentato di via Rasella e delle Fosse Ardeatine è sempre in grado di evidenziare.
La parte più interessante del libro, documentato ma con una scorrevolezza narrativa da romanzo è probabilmente quella dedicata alla carriera e alla fuga di Priebke.
Questo burocrate della Gestapo si trasferisce in Italia nel febbraio 1941. Il Paese è in guerra ma Priebke e famiglia erano convinti che tutto sarebbe finito presto e bene. Avevano trovato una casa bellissima al tezzo piano di un palazzo in via Bolzano, nel quartiere Trieste. Priebke si era ambientato facilmente, ovunque volgesse lo sguardo era sole e bellezza. Col tempo lui e la moglie Alicia avevano arredato la casa di souvenir: un quadro con il panorama di Capri e un altro con una veduta del Circeo... Priebke si era insediato nel suo ufficio all'ambasciata tedesca in Villa Wolkonsky, un edificio elegante circondato da un enorme giardino disseminato di reperti romani dove i pavoni scorrazzano liberi. Lì aveva ritrovato un ufficiale amico: Herbert Kappler. La banalità del male da salotto si schianta sul crollo militare italiano. Priebke diventa sempre più operativo, anche nella spasmodica ricecrca di dove gli italiani hanno collocato Mussolini deposto. Quando nell'attentato di Via Rasella l'11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment Bozen, composto da reclute altoatesine, viene colpito da un attentato che causa 33 morti tra i militari tedeschi (oltre a 2 civili). Iovane ricostruisce la dinamica decisionale della feroce ritorsione tedesca e il metodo utilizzato per raccogliere con ogni mezzo le vittime da sacrificare nelle fosse ardeatine alla dea dell'insensata vendetta voluta da Hitler.
Non è il caso di parlare di banalità del male, forse nemmeno di perdersi nelle questioni numeriche sul conto degli uccisi, quelle che, nelle aule di giustizia, hanno inchiodato Priebke alle sue responsabilità. Nella dinamica delle uccisioni, nelle testimonianze rese da Priebke prigioniero degli alleati, nella sua fuga quasi incredibile, nelle linee tracciate per cancellare i nomi degli uccisi alle Ardeatine dalla lista, si respira a pieni polmoni una sensazione di dissoluzione dell'Io.
Il marito premuroso, l'amante, il carnefice, il burocrate -tutti prigionieri nel corpo dello stesso uomo, Erich Priebke- fanno la loro comparsa sulla scena quasi che fossero ignari l'uno dell'altro. Se si fossero davvero incontrati, guardati, quello sguardo sarebbe stato l'inferno. E Priebke sarebbe stato un demone o un santo. Non fu niente di tutto questo, solo un uomo, fa paura perché somiglia a noi.
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