Vizi e manie al tempo dei social. Le stranezze del mondo contemporaneo vanno in scena a teatro, smascherate dalla pungente ironia di Alessio Giannone, alias Pinuccio di Striscia la notizia. Questa sera, 19 febbraio, alle 20.45, l'attore pugliese sarà sul palco del Teatro Manzoni di Milano con il proprio spettacolo «Non mi trovo», un viaggio irriverente e caustico attraverso i paradossi della società digitale. Si ride e si riflette allo stesso tempo tra monologhi, sketch e interazioni con il pubblico. In un'immaginaria aula di tribunale, Pinuccio chiederà al giudice di essere condannato per inadeguatezza alla fiera delle vanità social.
La sua è una denuncia sociale.
«Parlo della famiglia italiana e di come comunica sui social. Oggi le persone condividono online qualsiasi cosa, da quando si fidanzano a quando si separano, passando per matrimoni, battesimi e comunioni. Ma pensano davvero di essere interessanti? Non capisco questa frenesia della pubblicazione, sia delle gioie sia dei dolori. Nella mia famiglia questi sentimenti si sono sempre vissuti in maniera diversa e ancora oggi accade così. Quindi sperimento la mia inadeguatezza e nello spettacolo chiedo provocatoriamente l’esilio, per estraniarmi da quel che vedo ogni giorno».
Cosa la disorienta?
«La pandemia ha incrementato la comunicazione a distanza, così tanti hanno iniziato a condividere tutto della loro vita, ma sempre con l'intenzione di ottenere consensi, like. Per molti è più importante raccontare una cosa che viverla. Ormai conta solo attirare l’attenzione e per farlo c'è gente disposta a tutto. Una volta, se giravi in strada nudo, ti scambiavano per matto, ora per influencer»
A teatro parla anche di attualità?
«Faccio riferimento alle famiglie vip che ispirano certi modelli, compresa quella più nota dei Ferragnez, che usano i social in quel modo perché c'è un business dietro. Ma non capisco nemmeno l'emulazione e l'ostentazione della materialità della vita. Credo non sia giusto fare sfoggio di quel che si ha, perché dall'altra parte dello schermo c'è anche chi non può permetterselo. Ci vuole pudore. Mia nonna, ad esempio, quando a Natale mi dava cinquemila lire di regalo, lo faceva di nascosto come se mi stesse lasciando chissà cosa».
Il caso Ferragnez segna la fine di un'epoca?
«Non so se dopo di loro arriverà qualcun altro, ma una cosa l'ho capita: se tu vendi quello che sei e non quello che sai fare, prima o poi ti inceppi. Se imposti il tuo business sull'ostentazione, lanci un modello che è esposto alla défaillance e alla caduta, come pare stia accadendo».
I social sono davvero liberi da condizionamenti?
«No, ci sono delle regole non scritte e c'è molta autocensura, perché ci si chiede sempre se i contenuti possano piacere ai più. Anche rispetto a temi politici e sociali. E quando leggo certe prese di posizione forti, mi chiedo se chi le scrive le condivida davvero o le esprima per ottenere visibilità».
Ormai anche la politica è entrata nel meccanismo.
«I politici sono diventati influencer: mostrano cosa fanno, chi incontrano, cosa mangiano. Ma il mio dubbio è: vogliono attirare il mio voto per come appaiono o per quello che vogliono realizzare? Ora, salvo eccezioni, la vita politica dei nostri rappresentanti è breve come quella degli influencer. E così, come questi ultimi, anche i politici rischiano di essere scalzati da chi è più originale e comunicativo di loro».
Ma la rivoluzione social non doveva renderci migliori?
«Non ci ha reso migliori, ci ha messi in mostra per quello che siamo».
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