Anni '20 del Duemila: benvenuti nell'era dei database. Mai come negli ultimi anni è sui nostri dati che si gioca la battaglia tra le Big Tech. Su queste pagine ne abbiamo parlato spesso: da Google a Facebook, da Amazon a Netflix, la vera moneta di scambio è rappresentata da cosa facciamo online (e non), come interagiamo con amici e brand, i nostri interessi, cosa ci piace e cosa non ci piace. Alla profilazione non si sfugge, a meno di non vivere da eremita. Nulla di nuovo: gli studi su marketing e comportamento non sono certo recenti, ma ora gli strumenti a disposizione permettono una segmentazione sempre più precisa del "target", del pubblico a cui una determinata azienda si rivolge.
Negli ultimi anni la questione è diventata sempre più palese. Gli utenti diventano più consapevoli degli algoritmi che governano i servizi digitali e la paura di un Grande Fratello che ci spia costantemente si insinua in una fetta maggiore della popolazione. Così la nuova parola a cui puntare diventa quella della trasparenza. È partita una vera e propria corsa a chi dà più garanzie sulla sicurezza dei dati. Salvo poi far firmare lunghissimi termini di servizio in cui si spiega che quello che viene raccolto sul nostro conto può essere usato anche per fini pubblicitari o per una maggiore "personalizzazione" dei servizi, quando non viene ceduto ad altre aziende.
Ed è quello che sta facendo Apple. La stessa azienda che qualche anno fa spingeva l'uso dei propri dispositivi perché "immuni ai virus", oggi si lancia in una campagna in cui assicura ai propri utenti di segnalare tutti gli "spioni". Non solo quelle più palesi (come i social, gli ecommerce o le app di streaming video e audio), ma anche quelle che non ci aspetteremmo.
In realtà si tratta solo dell'ultimo episodio di una guerra che va avanti da ormai diversi mesi. Già nel dicembre scorso, infatti, sullo store di Apple erano apparse delle "etichette" che spiegavano agli utenti quali dati avrebbero condiviso con le singole app presenti sul proprio dispositivo. Una mossa che non era piaciuta affatto a Mark Zuckerberg che era arrivato a comprare una paginata su tre dei più importanti quotidiani americani per sostenere che la nuova politica della Mela avrebbe danneggiato soprattutto le piccole aziende, con un calo del 60% delle vendite a parità di investimento in pubblicità sui social, dal momento che una maggiore fetta di utenti avrebbe scelto di non concedere l'autorizzazione.
Tra le due aziende c'è una visione del business molto diverso: Apple ha ormai puntato tutto sull'esclusività, sul creare status symbol, sul "paghi, ma hai il servizio migliore che possiamo offrirti". L'impero di Zuckerberg si basa invece - almeno sulla carta - sull'inclusività, sul servizio gratuito per tutti che si regge sugli sponsor paganti. Sponsor che non si accontentano più di sparare nel mucchio come capita con la pubblicità tradizionale, ma voglio essere certi di raggiungere chi è davvero interessato al proprio prodotto. Una politica che sembra funzionare - per ora - sui social network propriamente detti come Facebook e Instagram, ma che ha sollevato un polverone quando è stato allargato alle app di messaggistica come WhatsApp.
Dal canto suo Zuckerberg prova in tutti i modi a sfidare Cook sul suo terreno annunciando a più riprese il lancio di dispositivi. Ultimamente si è parlato anche di uno smartwatch firmato Facebook che avrebbe minato l'Apple Watch.
O del lancio di una funzione audio che possa rimpiazzare Clubhouse (che al momento è disponibile solo su iOs). "Apple è uno dei nostri maggiori concorrenti", ha detto il ceo di Menlo Park. "Competiamo solo su alcune cose", ribatte a distanza Tim Cook. Insomma, la guerra è solo iniziata.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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