"Beep-beep". Una notifica e la vignetta verde fa capolino sul nostro smartphone. Poi un'altra. E un'altra ancora. Dopo dieci anni dal suo arrivo, WhatsApp è entrato nelle nostre routine. Il "buongiornissimo, caffè" al collega, il "come stai?" alla mamma, la "buonanotte" al partner lontano. Ma anche consigli, appuntamenti, sfoghi: le nostre vite passano per le spunte blu, simbolo della comunicazione degli anni '10 del millennio. Un rito ormai così comune che ci dimentichiamo che dal 2014 a permettercelo è un 36enne statunitense che ha fatto dei nostri dati il suo impero.
Già, perché ormai sappiamo che qualsiasi nostra mossa su Facebook e Instagram viene tracciata, analizzata da un supercervellone e messa in correlazione con milioni di altri dati, usata per proporci pubblicità cucite su di noi (non sempre con esiti fortunati, a dire il vero), per crearci nuovi bisogni e provare persino a condizionarci. È il marketing 2.0, bellezza.
Ma ora cade il velo a quello che avete sempre sospettato, ma Zuckerberg aveva sempre negato. E cioè che i dati non restano confinati nei server dove vengono salvati. Né sulle singole App. Ma possono permettere una profilazione maggiore di noi. Chi non sottostà a queste condizioni, viene escluso dall'uso.
È bastato un messaggio arrivato nei giorni scorsi praticamente a tutti a smascherarlo. "WhatsApp sta aggiornando i propri termini e l'informativa sulla privacy”. Nulla di inedito. Ma stavolta l'ultima frase suona un po' come un ricatto: dopo l'8 febbraio 2021 non sarà possibile utilizzare la piattaforma senza accettare i nuovi termini di servizio.
In realtà tutte le volte che scarichiamo un'app o creiamo un account siamo costretti ad accettare termini di servizio che probabilmente non leggiamo nemmeno. Allora perché ci si scandalizza? Perché stavolta si parla esplicitamente di trattamento dei dati. E spulciando bene le nuove regole viene fuori che presto i dati - solo quelli che interagiscono con WhatsApp Business, assicurano - potranno essere gestiti e archiviati con strumenti di Facebook.
Cosa significa? Che si realizzerà quanto finora solo ipotizzato: tutte le società della galassia Zuckerberg avranno accesso ai nostri dati. Nel caso di WhatsApp, quindi, anche il numero di telefono, l'email, i contatti, le localizzazioni, ecc. Tutte informazioni di cui ora già dispone, ma che - almeno formalmente - ora non può incrociare con quelli derivanti da Facebook e Instagram. Il velo è caduto, dicevamo. E poco importa se da giorni ripetono che "a rischio" saranno solo le interazioni con le aziende. Cioè con i milioni di account business già presenti sulla piattaforma che dal 16 maggio potranno profilarci meglio. Magari anche in base a quanti parrucchieri contattiamo nel corso dell'anno...
Del resto lo ammettono anche loro: se la cifratura end to end impedisce di leggere i contenuti delle chat con amici e parenti, questo non avviene con le conversazioni con le aziende: "Sia che si comunichi con un’azienda via telefono, via email o tramite WhatsApp, questa può tenerne traccia e utilizzare quelle informazioni per finalità di marketing che potrebbe includere le pubblicità su Facebook". Detto in parole povere: se si contatta spesso il parrucchiere di cui sopra, sarà probabile che tra i post sponsorizzati che vedremo ci saranno proprio i suoi. E riguarderanno i trattamenti che più spesso richiediamo.
Da giorni circola un'immagine che mette in relazione quello che le app di messaggistica sanno di noi. Ed è piuttosto inquietante vedere la lunga lista di permessi che regaliamo a Messenger. Lista che sarà presto integrata con quella di WhatsApp.
Signal vs Telegram vs WhatsApp vs Facebook Messenger
— Aki Anastasiou (@AkiAnastasiou) January 11, 2021
What data is collected from your phone.
You decide…@signalapp @telegram @WhatsApp @Facebook https://t.co/V8T6hW8Lg2 #Whatsapp #Telegram #Signal #Facebook #Privacy #Data pic.twitter.com/GYxqCibo4K
Certo, noi europei - almeno per il momento - siamo salvi: anche se il Garante ha acceso i riflettori, la legge sulla privacy in Ue è ben più ferrea di quella nel resto del mondo e il Gdpr impedisce di poter conceder tutto con un tap su "Accetto". Questa vicenda segna però un nuovo corso e avviene in un momento in cui le grandi aziende tecnologiche sono accusate di limitare la libertà degli utenti. Quello che da molti veniva persino considerato il "far west digitale" si scopre alla mercé di padroni silenziosi, capaci in un pochi istanti di "spegnere" il megafono che hanno dato in mano agli utenti. Il tema della libertà di espressione e della neutralità è dibattuto fin dagli albori del World Wide Web. Sinora ha riguardato più gli aspetti tecnici di quello che ha cambiato il nostro modo di comunicare (chi gestisce l'infrastruttura). Ma nel tempo quello che poteva sembrare una grande "prateria" si è riempita di poche aziende che davvero hanno in mano le nostre vite digitali. Facebook, Twitter, Google, Amazon in testa. Aziende private che sulle loro piattaforme danno le proprie regole. Regole che - lo ripetiamo - accettiamo nel momento in cui ci iscriviamo al loro servizio.
Sono sempre stati considerati "contenitori" in cui versare contenuti. Sono stati additati quando sono diventati veicolo di bullismo, odio e violenza. È stato chiesto loro di controllare cosa veniva riversato sulle piattaforme. Ma è un cane che si morde la coda: chi controlla il controllore? E così vediamo Trump bloccato nel momento della sua caduta (perché non prima?), ci indignamo quando viene censurata una foto con una mamma che allatta o un celebre quadro. È la fine del mito di internet come simbolo di libertà.
In piccola parte la vicenda di Whatsapp è l'emblema di quello che sta accadendo e pone davanti a interrogativi finora tenuti forse troppo spesso sottotraccia. "Se non paghi per il prodotto, il prodotto sei tu", ricorda il docu-drama The Social Dilemma che solo qualche mese fa ha provato - secondo noi senza riuscirci appieno - ad affrontare l'argomento. Ma è giusto "regalare" le nostre vite a chi le usa per venderci al miglior offerente? Dipende da cosa si è disposti a "regalare". E soprattutto se lo si fa con la consapevolezza di quello che accade "dietro le quinte", senza più stupirsi se si nomina, magari su Messenger, un determinato prodotto e per giorni si notano solo sponsorizzazioni correlate.
E quindi cosa fare con il famigerato messaggio di WhatsApp? Anche se in Europa - per ora - poco cambia, pensare di abbandonare la piattaforma per una questione di principio è lecito. Di alternative ce ne sono diverse, da Telegram a Signal.
Ma non dimenticate che in linea teorica avranno accesso agli stessi dati (anche se per farlo dovrebbero anche loro cambiare i termini di servizio). Il più sta nel convincere tutti i contatti a traslocare nello stesso posto... Zuckerberg ha concesso altri tre mesi per farlo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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