Pechino - E poi furono pioggia, vento e tempesta. Perché al secondo giorno Giovanni l’apostolo olimpico non ce l’ha fatta a predicare dal gradino più alto del podio. Voleva l’oro per dare più forza alle sue parole, si è dovuto accontentare dell’argento del giusto. Aveva detto «Dio è con me» e Dio l’ha punito per simile ardire, dimostrando una volta di più che il libero arbitrio esiste, per cui tutti liberi di sbagliare, Pellielo compreso. Certo, l’argento fa sognare, ma il miracolo atteso non c’è stato, nonostante abbia vinto un ceco che di nome fa Kostelecky e che di centri, nella finale del tiro dalla fossa, ne ha fatti venticinque su venticinque. Un’iradiddio. E che l’apostolo olimpico non se ne abbia.
E poi fu il vento che si alzò al primo errore di Giovanni, quando l’oro non era ancora un miraggio e persino la doppietta non pareva un sogno. Come se in alto, molto in alto, ci fosse uno spettatore in più, lo Spettatore, a osservare quel piattello rosso che non si spezza e il tabellone che dice «Pellielo errore» accompagnato dall’ola triste degli ohhh dei dirigenti del Coni, presidente Petrucci in testa. «Però questo argento è più importante e più sofferto rispetto a quello di quattro anni fa» dirà l’apostolo Giovanni a gara finita e tempesta ancora in corso. «Era un anno e mezzo che non vincevo nulla d’importante, ero preoccupato dai nuovi regolamenti con la finale a colpo secco… in più queste condizioni: lo smog, la scarsa visibilità». Mentre Pellielo si racconta, nascosto negli spogliatoi c’è il giovane Erminio Frasca che ha appena finito di dannarsi per i tre errori di fila che l’hanno spintonato giù dal podio e lontano, troppo lontano, sesto. Il tecnico ha giusto terminato di dirgli una cosa leggera leggera, di quelle che ti tirano su il morale in un attimo, del tipo «avevi la medaglia al collo e l’hai voluta perdere...».
E poi il cielo si fece ancora più scuro, dal tetto della tribuna d’onore cominciarono a filtrare piccole gocce che crescevano in fretta trasformandosi in secchiate d’acqua a inzuppare tavoli e poltroncine e visi truccati e giacche eleganti di dirigenti e parenti, massì, anche di qualche tifoso. Il cielo divenne gravido di pioggia rabbiosa quando l’apostolo olimpico sbagliò per la seconda volta, quando l’argento si trasformò definitivamente nel massimo sogno realizzabile, quando quel demonio di un ceco dimostrò una volta di più che lui no, lui non avrebbe mai ceduto l’oro. «Avevo chiesto al Signore di aiutarmi» dirà ancora Pellielo «perché vincere o fare medaglia qui sarebbe stata la più bella pubblicità per la fede; e lui mi ha ascoltato». Solo in parte, gli fa notare un coraggioso, ma Giovanni non ci sente o non lo vuole sentire e per fortuna non ha il fucile in mano. Prosegue. «L’argento è una grande medaglia, sono felicissimo, perché c’è chi predica con le parole e chi dà la propria testimonianza di fede con i fatti… ecco, io ho scelto la seconda via. Pensateci: tutto il mondo sapeva della mia profonda fede e non ho mancato l’appuntamento, sono qui, sono riuscito a conquistare una medaglia fondamentale per far parlare delle mie convinzioni in questo Paese… per predicare la Parola».
E poi furono tuoni e tempesta. Perché la medaglia più preziosa stava in tasche altrui e il libero arbitrio aveva scostato l’apostolo olimpico dalla perfezione cercata. Impossibile però allestire la premiazione come previsto laggiù sul prato verde, a pochi metri dalla fossa olimpica. Troppo il vento, troppe le secchiate d’acqua e i tuoni e la gente che correva per ripararsi dal tetto grondante e costruito male.
E poi fu che un po’ gli girarono. È successo quando un cinese di troppo gli diede uno spintone di troppo e la parola che ne uscì fu molto poco apostolica...
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