Cè un tenorello di Sassuolo, dunque, che spopola ad Amici adottato dai presenti ed ascoltato ogni volta da un pubblico grande 1800 volte quello della Scala. In gran parte ragazzi. È bene? È male? Al posto di schierarci questa volta proviamo a ragionarci su.
Matteo Macchioni, il tenorello, porta lopera, si dice, ad un pubblico giovane. Proprio lopera no, perché lopera chiede una storia da vivere, un palcoscenico di teatro, unorchestra, ed altre cose, tra cui ladesione di chi ascolta a un linguaggio teatrale particolare. Generare confusione sarebbe un misero risultato. Ascoltare La donna è mobile da uno in calzoni e felpa senza avere capito la dissolutezza di duca libertino, con la sera che volge al temporale nella locanda diroccata sul fiume, e senza lillusa ragazza che lo ama e lo scopre da lontano, è tutta unaltra faccenda.
Però Matteo cantando ne porta un sentore, ne apre uno spiraglio, fa ascoltare una melodia elegante, ardita, non impacciata fra indugi cantilenati e rabbiosi frammenti ripetuti, anzi lanciata scopertamente. E anche Una furtiva lagrima, che unaltra volta ha eseguito, pur senza linnocenza ruspante e patetica del contadino Nemorino, può coinvolgere nella tenerezza dun amore.
Lui canta bene, la sua voce è fragrante, appoggiata quanto basta per rivelarne un colore equilibrato e suadente, il respiro è ben calcolato, la dizione convincente; per ora è un «tenore leggero», poi con gli anni si saprà. Per esserne sicuri, si dovrebbe sentirlo in un teatro, senza microfono, con lo spazio giusto. A lui lesperienza farà bene, imparerà un rapporto autentico col pubblico, e non mi sembra che con Maria De Filippi corra il rischio dessere troppo sopravvalutato, data la spiccia ironia, provvida, della conduttrice.
Il pubblico si lascia trasportare: applaude quando gli sembra dessere in un momento entusiasmante, a costo di coprire coi battimani proprio ciò che vuole premiare. Eccessivo. Ma nei periodi di grande partecipazione popolare, cerano anche maggiori intemperanze. Non mi ricordo più quale tenore a Palermo fu costretto a ripetere più volte la stentorea frase «Miseria mia!» nellOtello di Verdi, finché sindispettì, cantò «Miseria vostra!» e fu sommerso di fischi. E poi ogni genere di spettacolo, come questo dello show televisivo, ha il suo costume, le sue liturgie, i suoi ritmi vitali.
Così, il pubblico giovanile, a cui lopera appare ostica, comincia ad averne un contatto. È naturale che per molti sia una novità. In una nazione dove si possono percorrere tutti i gradi degli studi fino alla laurea senza avere mai affrontato né Beethoven, né Rossini, né Shakespeare, pochi vanno a teatro. E non si può pensare che mescolino almeno lopera alle loro canzoni: lopera da decenni si è affidata solo alle prestazioni griffate dei grandi musicisti dai linguaggi complessi, e quella popolare, che sentiamo vicina, è del passato, assai più antica della Canzone del Piave o di Come pioveva. Se può apparire vicina, è perché sta nel nostro dna, a volte mitica nei racconti di famiglia, a volte nel riaffiorante nostro orgoglio; ma soprattutto per la sua immediata forza di bellezza contagiosa, come una poesia di Leopardi.
Il fatto è che il pubblico presente deve anche votare nei confronti fra i giovani artisti che si esibiscono in perenne sfida: e Matteo sta saldamente in cima alla classifica. Il che può dipendere dalla sua disarmata simpatia: così diverso dalle immagini ufficiali dei tenori solenni ed impacciati. Ma può anche essere un sintomo duna realtà che ognuno scopre per indizi suoi.
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