Teora, il paese che ha il terremoto nel destino

Il terremoto lo inseguiva. Lo cercava. Lo voleva. Da trent’anni. Pensava di essergli sfuggito in tempo Antonio. D’aver spezzato la maledizione ancor prima di venir al mondo. S’illudeva di esser stato salvato da sua padre e da suo nonno, dagli antenati industriosi e lungimiranti della famiglia Sperduti che alla fine dell’800 avevan detto addio al paesino di Teora, all’arida e brulla Irpinia, per cercare fortuna al sole di Haiti. Fortuna. In tanti anni di lontananza, fatiche e sacrifici non era stato sempre così. Lo fu sicuramente in quel 1980 quando Antonio, Rodolfo e Michele, i tre fratelli Sperduti, e il cugino Leone accesero il televisore, quando nelle immagini innevate, sfocate del satellite intravvidero quel che restava delle loro radici. Sassi e morte. Lacrime e polvere. Macerie e disperazione. Era tutto quel che avanzava della loro Teora, dopo la spallata del sisma. Eran le immagini crudeli di quel novembre 1980. Era quel che raccontavano parenti lontani quando le voci sconfortate e i suoni del dialetto dimenticato riecheggiavano tra i fruscii e i disturbi della linea intercontinentale. «Ricordo bene, ricordo momenti e parole, eravamo allibiti, sconvolti da quelle immagini tremende, sconcertati dai racconti... non pensavamo certo – ricorda Luca - di dover un giorno vivere sulla nostra pelle quella stessa tragedia, quello stesso maledetto terremoto». Invece alla fine il terremoto li ha trovati, s’è portato via il cugino Antonio, lo tiene sepolto da mercoledì nella sua tana di macerie. Trent’anni fa Rodolfo, Michele, il povero Antonio e il cugino eran solo dei ragazzini. Eppure Leone non dimentica. Ricordano bene il minuetto di pianti e sospiri che ingolfava la linea in quei giorni amari. Fortuna, la loro di discendenti lontani. Tragedia, quella dei parenti rimasti. «Nel 1980 eravamo noi i più fortunati a telefonare al paese, a cercar notizie, ad ascoltare le storie disperate dei parenti. Ora la tragedia tocca a noi, ora siamo noi – racconta Leone, il cugino disperato ed avvilito di Antonio - a dover rispondere a chi dall’Irpinia ci chiede come stiamo».
Non avevan fatto i conti con il destino. Non li aveva fatti Antonio. Ora lui è lì sotto, in quella tomba di cemento, carrelli e scansie che era il suo regno. Direttore lo chiamavano e a Port-au-Prince tutti subito pensavano a lui. L’italiano del supermercato più grande e più rifornito, il signor direttor Antonio. Lui del terremoto s’era quasi scordato. Non sentiva sul collo il fiato della natura, la voglia di rivalsa d’un sisma deciso a riprendersi quel che gli spettava. Nomen omen, il destino scritto nel nome, Antonio un po’ l’aveva. Di quei Sperduti lontani, ma non dimenticati uno almeno il sisma lo voleva. Lo esigeva. Quasi una riparazione per le sofferenze risparmiate trent’anni prima. Un sacrificio di famiglia che ora qualcuno doveva espiare. Un debito di sangue forte come quei legami con la terra lontana che quattro generazioni – sostiene Leone - non son riuscite a cancellare. «Nonostante sia passato un secolo tutti noi qui ad Haiti sentiamo ancora un fortissimo vincolo con l’Italia e con la nostra terra d’origine». E sulla sorte di Antonio il cugino si sforza di essere ottimista.

«Nelle ultime ore arrivano notizie di persone, qui a Port-au-Prince, uscite vive dalle macerie. Noi fino alla fine ci speriamo, noi fino alla fine non disperiamo, non rinunciamo». E la lotta dei trent’anni. La lotta degli Sperduti. La lotta di una famiglia che alla fine il terremoto ha purtroppo ritrovato.

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