Tequila, un mondo oltre il «bum-bum» Lo spirito dei desperados diventa nobile

Non solo chupiti: terroir, invecchiamenti e nuove ricette come il «Curado»

Alberto Milan

«Il Console sentiva il fuoco della tequila scorrergli lungo la spina dorsale come un fulmine che colpisce un albero. E un attimo dopo l'albero, come per miracolo, fiorisce».

Non esiste romanzo come Sotto il vulcano di Malcolm Lowry per raccontare il volto magico, disperato e selvaggio del distillato messicano. Ma quello che per decenni è stato uno spirito ribelle, adorato dagli americani che ne consumano il 60% della produzione, ora ha deciso di svoltare. Superata l'iconografia di mariachi, scheletri e gringos nel deserto; archiviata la retorica della sbronza facile a colpi di chupitos, «bum-bum» e «sal y limon»; la sfida di oggi è produrre un tequila (sì, è maschile) che rivaleggi coi distillati nobili. Non più solo cocktail, dal Margarita all'Adios Motherfucker (drink da duri a base di caffè), ma anche nettare da meditazione.

Per farlo, servono produttori fantasiosi e importatori coraggiosi. Di per sé, il tequila è una variante regionale del mezcal, ovvero il distillato di pulque, succo fermentato di agave cotta. Quello che si produce soprattutto sull'altipiano di Jalisco, dove i terreni argillosi consentono la coltivazione della zuccherina agave azul, dal '74 si chiama ufficialmente tequila, dal nome della cittadina. Dal 1753, anno di fondazione della prima distilleria Antigua Cruz, ne è passata di aguardiente nei bicchieri: oggi le distillerie sono 170 e i brand 1300. Tante sono dei colossi industriali che puntano sui volumi, ma alcune si sono ritagliate una nicchia e cercano vie alternative basate su artigianalità e tradizione, come i mezcal.

Importati in Italia da Compagnia dei Caraibi arrivano per esempio due nuovi concetti di tequila che stanno facendo scuola. C'è Ocho, il marchio creato da Felipe Camarena che per primo ha utilizzato il concetto di terroir: tequila prodotti distillando solo piante di un singolo appezzamento, dove altitudine e terreno danno sfumature molto diverse. E c'è Curado, collaborazione fra Ocho, l'ambasciatore del tequila Tomas Estes e il gruppo Vantguard (Gin Mare): un prodotto diverso, dove nel tequila non invecchiato viene lasciata in infusione agave cotta di tre differenti tipologie: Blue weber, Espadin e Cupreata. Le tre bottiglie - che portano impressi gli Alebrijes, animali mitologici locali - hanno note che vanno dall'agrumato al dolce, dal vegetale all'affumicato.

La tradizione è nel dna di Herencia Mexicana (nel portafoglio Rossi&Rossi), hacienda dove si nascose Pancho Villa durante la rivoluzione. Oggi produce uno «slow tequila» dagli aromi concentrati. Molto apprezzata è Fortaleza, piccola distilleria nata da una costola del gigante Sauza. Per decenni è stata in pratica un'isola fuori dal tempo, con tini di legno e macine di pietra. Nel '99 ha ripreso l'attività, distillando alla vecchia maniera e mantenendo alta la qualità, fattore determinante perché la Velier di Luca Gargano decidesse di importarla in Italia insieme ad altre etichette come Herradura e Milagro, marchio ideato da due ragazzi di Città del Messico col pallino del tequila artigianale e del packaging di design. L'altra strada da battere è quella degli extra-invecchiamenti. Nato bianco, il tequila può essere anche reposado o anejo.

Don Julio - marchio di proprietà del colosso Diageo - ha creato Don Julio Real invecchiando il distillato oltre 5 anni, così da rivaleggiare anche nello «standing» col cognac. Adios desperados, ora il tequila è cosa da señores.

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