Alla vigilia del novantesimo compleanno, poche settimane fa, le autorità americane hanno tolto Nelson Mandela dall’elenco dei terroristi: c’era dai tempi dell’apartheid. Mandela ora è un ex «resistente». Relatività delle etichette! Sempre presente, però, il terrorismo colpisce ancora: in Cina, approfittano della cassa di risonanza delle Olimpiadi; in Turchia; ma anche quasi quotidianamente in Afghanistan e in Irak. Soprattutto in nuove forme.
Ci sono centodieci definizioni di terrorismo. Nessuna fa l’unanimità. Molte sono semplici tautologie («Il terrorismo vuol provocare terrore»), altre sono più descrittive che esplicative. Tutti concordano, beninteso, nel riconoscere che il terrorismo associa obiettivi politici, ricorso illegale alla violenza e offesa indiscriminata delle popolazioni, ma, a cominciare da guerra e guerriglia, non ogni violenza politica dipende dal terrorismo, che spesso bersaglia i civili, mediaticamente detti gli «innocenti», distorsione del linguaggio per dare un puro giudizio morale sul terrorismo, senza spiegarlo (anche le guerre convenzionali colpiscono sempre più civili).
Il terrorismo è impresa illegale, ma l’uso illegale della violenza non è necessariamente terrorismo; tenta di destabilizzare i poteri pubblici, ma non si confonde con la sovversione o con la semplice propaganda attraverso l’azione; tenta anche di impaurire, ma si può farlo in vari modi. Commette crimini, ma quasi mai i criminali vogliono destabilizzare la società: non rende.
Il termine resta dunque sfocato e quindi suscettibile di ogni strumentalizzazione opportunistica o d’usi metaforici, che rischiano di privarlo di significato. La diversità di ciò che va sotto il nome «terrorismo» rende poi oziose le discussioni su possibilità o impossibilità di «giustificare il terrorismo» (logoro dibattito sul diritto di punire collettivamente e sul «fine che giustifica i mezzi»).
Oggi l’importanza del terrorismo non deriva dal numero delle vittime - in genere i conflitti armati ne fanno ben di più, senza causare quelle reazioni - ma dal fatto che il suo avvento su scala globale fa entrare in un’altra epoca della guerra e dell’inimicizia. Il terrorista globale non ha più molto a che fare col partigiano tradizionale. Contrariamemente al guerrigliero, non vuol prendere il potere, né controllare fisicamente un territorio come base logistica o area di reclutamento. Conduce una lotta asimmetrica, dove computer e telefonini contano quanto armi e munizioni. Colpendo militari e civili, facendo spesso spazio al concetto di «resistenza senza capo», cioè senza rapporti verticali e centralizzati di comando (Al Qaida è solo un marchio depositato), cancella ogni distinzione tradizionale della guerra classica. Inoltre è ubiquo quanto una multinazionale: nella locuzione «terrorismo internazionale» conta l’attributo «internazionale». Il suo fronte non è mai localizzato: è ovunque e in nessun posto. La sua azione non ha sede territoriale, linee geografiche chiare. La sua area è più lo spazio che la Terra.
La portata del fenomeno è innanzitutto psicologica. Per causare paura, inquietudine e sospetto, colpire l’immaginazione suscitando forti reazioni emotive, il terrorismo globale mira a un’offesa d’ordine psicologico, che superi le eventuali vittime. S’è visto con l’attacco alle Twin Towers di New York l’11 settembre 2001. Dissocia del resto vittime immediate e veri obiettivi, effetto materiale ed effetto psicologico, dove il primo serve al secondo. Già nel 1962 Raymond Aron diceva: «Un’azione violenta è terroristica quando ha effetti psicologici sproporzionati rispetto a quelli puramente fisici».
La violenza terroristica è una violenza di riflesso, con un obiettivo più ampio dell’obiettivo immediato, tanto quanto sfocia nella mediologia: il suo messaggio è il danno. Un attentato terroristico fa sempre meno vittime che spettatori. Da qui la relazione intima e traumatizzante fra terrorismo e opinione pubblica. Il terrorismo dipende strettamente da ciò che se ne dice e se ne mostra: solo la diffusione mediatica conferisce all’atto terroristico la vera portata, dunque anche i media partecipano al terrore. In tal senso il terrorismo è figlio della società della comunicazione e dello spettacolo. A società dello spettacolo corrisponde terrorismo dello spettacolo - il terrorismo come spettacolo. Perciò la società è vulnerabile alla sua diffusione virale come lo è a quella di altri virus.
Infine la violenza terroristica è violenza simbolica, nel senso forte del termine. Violenza simbolica associata a strutture operazionali e che vuol destabilizzare gli spiriti, provocando un eccesso di realtà e destituendo forme correnti del reale. Col suo carattere imprevedibile, il terrorismo “stupisce” una società dove l’esercizio della politica passa per l’esclusione della violenza, avendo dimenticato che la guerra continua soltanto la politica con altri mezzi.
I poteri pubblici hanno parlato volentieri di «guerra al terrorismo», ma la guerra vuol sempre piegare una volontà politica. E poi non c’è guerra senza un nemico riconosciuto. Contrariamente alla guerra convenzionale e alla guerriglia, il terrorismo non ha statuto giuridico in base alla legge internazionale e non può essere riconosciuto dagli Stati. Con lui non si negozia, non si fa pace. Non è un nemico riconosciuto, quindi è degradato a un livello infrapolitico, dove è esclusa ogni regola del gioco politico. È trattato da impresa criminale, di competenza della polizia, con la conseguenza di negarne il carattere politico e di generare una nuova forma di criminalizzazione del politico. Di qui l’equivoco della «guerra al terrorismo», poiché dichiararla al terrorismo è riconoscergli lo statuto negatogli altrove. E negatogli a torto, perché il terrorismo è innanzitutto un fenomeno politico. Né «assurdo», né «gratuito», ha cause politiche e persegue obiettivi politici, come gli attentati anti-israeliani in Palestina. Si può combattere il terrorismo coi modi polizieschi, si può debellarlo solo con la politica.
Finora i terroristi hanno spinto le società liberali a usare contro di loro misure d’eccezione - sorveglianza generalizzata della popolazione, ricorso a tortura, internamenti arbitrari e prigioni segrete - ufficialmente negata. La loro maggiore vittoria? Che i loro nemici assoluti li abbiano proclamati, a loro volta, nemici assoluti. Li hanno così spinti sul loro stesso terreno: il caso di Guantanamo è simbolico. Infatti prevale l’idea che tutto è lecito contro i terroristi, perché i terroristi sono capaci di tutto.
Hannah Arendt distingueva il «nemico oggettivo» dal «sospetto».
Distinzione abolita dalla lotta antiterroristica. Le libertà civili sono dunque finite fra le vittime collaterali. «Colpirne uno per educarne cento», come diceva Mao citando Stalin, entrambi esperti del ramo.(Traduzione di Maurizio Cabona)
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