Se tolleriamo chi uccide le idee

"Islamofobia" è anzitutto un reato, un vulnus, è una provocazione anti-musulmana che comporta anche il rischio di trasformarsi in potenziale bersaglio per fanatici o lupi solitari o terroristi islamici

Se tolleriamo chi uccide le idee

L'iracheno Salwan Momika, mercoledì sera, stava parlando via social del processo che l'attendeva l'indomani, ma altri avevano già deciso la sentenza e caricato le armi. Momika stava postando un video in cui diceva «ognuno deve essere pronto a morire per le sue idee», ma altri avevano deciso di prenderlo in parola. Momika, in Svezia, si rivolgeva ai suoi 164mila follower, mentre Netflix, quella stessa sera, mandava in streaming una serie tv (svedese) che raccontava l'omicidio di un musulmano perbene da parte di un occidentale per male. Dopodiché i cronisti, sempre in Svezia, hanno faticato a procurarsi notizie sull'assassinio perché la polizia ha diffuso soltanto una nota su «una sparatoria nella cittadina di Sodertalje», con «un uomo ferito che è stato portato in ospedale»: niente nome, niente movente (anche se lo immaginiamo tutti) e niente sulla possibile matrice cultural-politica degli assassini, niente contesto, nessun parallelo con altri casi, nulla che potesse turbare il clima narcotico che avvelena l'Europa ossessionata dall'«islamofobia»: espressione che, attenzione, non corrisponde a temere legittimamente una progressiva penetrazione dell'islamismo nel nostro Continente, non significa cioè temere una crescente tolleranza per dei valori incompatibili con quelli a cui siamo abituati; «islamofobia» è anzitutto un reato, un vulnus, è la paura di offendere una cultura pre-conciliare e inscindibile dalla religione, è una provocazione anti-musulmana che comporta anche il rischio, non bastasse, di trasformarsi in potenziale bersaglio per fanatici o lupi solitari o terroristi islamici: quando c'è differenza.

C'era un concetto che sfugge, forse: nella sostanza non c'è una diversità tra l'assassinio di Salwan Momika e quello dei sàtiri di Charlie Hebdo: entrambi sono stati ammazzati perché esercitavano una libertà di espressione, come pure la esercitava il regista olandese Theo Van Gogh trucidato nel 2004 per un suo cortometraggio dedicato a una musulmana violentata da un suo parente. Non c'entra niente se non si condividono vignette o cortometraggi o gesti estremi, come lo è stato bruciare pubblicamente un Corano da parte di Momika: ci basta sapere che sono stati ammazzati per questo, per una libertà di espressione che va difesa con tutte le nostre forze. Quel che faceva Momika era tutto autorizzato, legale: in Svezia bruciare libri non è un reato, e non lo fu neppure quando bruciò un Corano, fatto che innescò una crisi tra Turchia e Svezia nel 2023.

Il punto è che il paradosso svedese sul caso Momika, oggi, rispecchia quello di un intero Continente: col suo attendismo, il suo correttismo e la sua accidia. In sintesi: un iracheno, Momika, in Svezia faceva qualcosa di lecito, ma la stessa Svezia intanto stava per processarlo per istigazione all'odio (dell'islam) e poi, ancora, la stessa Svezia lo aveva formalmente espulso dai propri confini ma non osava rimandarlo in Irak perché equivaleva a condannarlo a morte. L'Europa, quindi, piuttosto se l'è fatto ammazzare in casa. Ma non lo dice. Non soffia su fuoco. Minimizza. È la stessa Europa che ha trasformato in islamofoba una frase di Oriana Fallaci: «L'islam è il Corano... E il corano è incompatibile con la libertà, con la democrazia e con i diritti umani». È l'Europa che forse giudicherebbe islamofoba la Lectio Magistralis di Papa Ratzinger letta a Ratisbona nel 2006, quando rievocò un'antica citazione sulla fede islamica diffusa con la spada. È l'Europa in cui il think tank britannico «Runnymede» ha definito l'islamofobia «una forma di razzismo simile all'antisemitismo», e l'Europa in cui, nel 2020, l'uccisione di George Floyd negli Stati Uniti diede vita a settimane di proteste e, sui nostri media, e oscurò la contemporanea uccisione di migliaia di iraniani che chiedevano libertà soprattutto per le donne: ma non ci furono grandi proteste, da noi, né interventi di star del cinema o inginocchiamenti nei campi di calcio. Le proteste, però, le suscitarono semmai le frasi del cancelliere tedesco Olaf Scholz dopo l'attentato islamico di Solingen nell'agosto scorso: dissero che era un islamofobo, perché parlò di «rabbia contro gli islamisti» e annunciò un piano per accelerare le espulsioni degli irregolari.

C'era un altro concetto che sfugge, forse. Sarà capitato a ciascuno, nel tempo, di conoscere dei musulmani e di averli giudicati delle ottime persone, dei cittadini che mai, nemmeno minimamente, neppure per remotissima ipotesi, avrebbe giudicato come prossimi in potenza a delle contiguità ambigue, dei potenziali lupi solitari, o, peggio, dei terroristi in sonno. Ecco: il fatto che siano musulmani non cambia di una virgola la probabilità di averci preso nel giudicarli, e infatti, qui, non sono in discussione le persone: sono in discussione le idee. E le idee, nell'Europa dei pareggi di bilancio e dei tappi sulle bottigliette, non si è più attrezzati per affrontarle, per sostenerle con forza. Andrebbe ricordato questo: che c'è poco da fare, un musulmano, qualsiasi musulmano, ottima persona o deviante che sia, tende a respingere la separazione tra Stato e religione, a non contemplare la piena democrazia, e soprattutto, tra altro, a escludere la parità di genere.

Se non accetta queste idee, e se dovesse anche solo empatizzare con degli assassini di un qualsiasi libero pensatore, un musulmano non può stare qui. Questo gli andrebbe detto chiaro e forte, e, se dovesse offendersi, chi se ne frega.

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