TESSUTO

«H ai stoffa, ragazzo» tuonò Ricky Gianco dopo l’audizione. Da quel momento Mario Bongiovanni diventò Mario Tessuto perché stoffa non suonava poi benissimo per uno che voleva cantare. Mario Bongiovanni era un uomo del sud, pardon un ragazzo del sud, uno dei tanti che arrivarono a Milano con papà, mamma e un nugolo di fratelli: lui era il sesto e ultimo. Veniva dal profondo sud della Campania: otto in una stanza, il gabinetto non c’era. Stava fuori. A metà degli anni ’50, via Ricciarelli, zona Fiera, era un quartiere in espansione. San Siro alle spalle, la Campionaria a un tiro. Mario sulla testa aveva un tetto vero. Lui e i suoi. Una camera, il bagno, perfino la cucina.
Mario all’epoca era già un talento, ma lo frenava la timidezza. Scendeva in cortile e si nascondeva sotto i balconi, poi rischiarava la voce e... cominciava il canto. Le fresche note di O surdato 'nnamurato, il laconico sospiro di Dicitencello vuje richiamavano alle finestre gli emigrati che l’avevano preceduto nell’avventura nordista e i milanesi col coeur in man. Tutti si sporgevano per vedere quel bambino così bravo, che esibiva la voce ma nascondeva il viso. Impararono a conoscerlo perché cantava anche in chiesa. Poi l’approdo nei locali dove la Milano dei ricchi andava a divertirsi. Allo Star jolly club e alla Ca’Bianca lo notarono Celentano e Benedetto Mariano, le anime del Clan. Era fatta. Ma Don Backy si mise di mezzo: «Troppo giovane per noi, studia un’etichetta fatta apposta per i giovani. Quindi per lui». Arrivò Ricky Gianco e se lo portò via. Fu lui a produrre Mario Bongiovanni in arte Tessuto perché aveva stoffa. Poi il Cantagiro, Settevoci, il Festival di Sanremo ma soprattutto lei, Lisa che non è una donna anche se ha gli occhi blu. La compagna di una vita, l’angelo custode. Proprio come gli angeli che non hanno sesso e neppure età, perché Lisa dagli occhi blu è una canzone. Ha quarant’anni e sembra ieri, è cambiato pure il millennio eppure, basta nominarla, che qualcuno la fischietta o la canticchia. «Grazie a lei ho girato il mondo -dice- in Italia ho avuto un successo simile a quello dei Beatles su scala mondiale»
Fa quasi sorridere il successo di una canzone...
«Troppo successo, sarebbe stato meglio averne meno. Lisa, a suo modo, è stata una trappola. Mi ha dato tutto e subito...»
Oggi «Lisa da gli occhi blu» è un ristorante di prestigio...
«Il mio regno. Sarò anche l’ultimo cantante del mondo, ma in cucina sono megalomane e ai fornelli non vedo nessuno. Io, primi e pesce, mia moglie: gnocco fritto. Successo assicurato».
Alcuni ti facevano concorrenza ieri cantando e oggi da ristoratori. Vedi i Dik Dik...
«Siamo amici. Ci sentiamo spesso per scambiarci opinioni su come vanno gli affari...».
Prima cosa faceva Mario Tessuto?
«Cantava. Da quando l’abbiamo aperto, io e mia moglie abbiamo dovuto rinunciare a tantissime serate. Se io sono fuori, molti clienti non vengono... E poi parlano degli chef!».
Ma sua moglie non è un’artista affermata.
«Ci siamo conosciuti a Milano, da ragazzini. È stato fatale un sabato pomeriggio in un locale, come tanti ragazzi. Una battuta, due chiacchiere, poi l’ho accompagnata al pullman. Ho rischiato di non vederla più: il numero di telefono me l’ha urlato dal finestrino mentre partiva la corriera».
Com’erano i ragazzi nella Milano di ieri?
«Più sani. Corteggiavamo la mamma per farci fare un regalino a Natale. Piccoli piaceri, aiuti e qualche birichinata, ma mai un grattacapo. Oggi invece hanno tutto».
Nel '71 era già al massimo del successo, Lisa è del '69...
«Ci siamo potuti permettere un appartamento in via Gulli, 150 metri. In quell’epoca avrei potuto comprare tutte le case che volevo, ma chi s’azzardava a investire così. Oggi sarei miliardario».
E invece?
«E invece sono un nonno felice con due nipotini che adoro: una passione violenta. Vivo bene, ma ho lasciato Milano».
Addio rutilante metropoli?
«Venivo da un paesello, in un paesello sono tornato. Prima Bareggio, ora Albairate. Sognavo la villa. Ce l’ho fatta: un patio e il giardino per fare la brace e cucinare pesce per tutti. A casa mia c’è sempre un posto a tavola in più...».
E di Celentano che cosa ti resta?
«Il ricordo, l’amicizia, il desiderio di rivedersi e neanche una foto. Anche se oggi non ci si può avvicinare: c’è chi non gradirebbe. Lui è un buono, lui...».
E Orietta Berti?
«Un’amica cara».
Lucio Battisti.
«Un affetto vero. Con lui e Mogol ho fatto la famosa cavalcata verso Roma. Un uomo schivo, un grandissimo. Ha lasciato un segno indelebile».
Nostalgia?
«Sono stati anni bellissimi, ma rimpiango solo l’età».
Sei un uomo del Sud, che cosa ti è rimasto dentro dopo oltre mezzo secolo di Lombardia?
«Sono ancora terrone dentro, chi ha vissuto quella realtà non può disfarsene, però il vero milanese è una bella persona, è il trapiantato che è pericoloso».
Milano e Vincenzo è una canzone famosissima e Vincenzo è un nome-icona del Sud. «Mi piacciono i tuoi quadri grigi, le luci gialle e i tuoi cortei, Milano sono contento che ci sei». Condividi?
«In pieno. Milano è stupenda: se non ci fosse bisognerebbe inventarla. È un po' come la mamma, è bello sapere che c’è. Resto terrone dentro ma al mio paese non tornerei. A Milano devo tanto, forse tutto. E la ringrazio per l’educazione e il modo di vita che altrimenti non avrei. È una città dalla mentalità rigida, precisa che insegna a stare al mondo. Adesso ho due culture: quella milanese e quella terrona. Convivono benissimo».
Vincenzo dice che sei fredda e frenetica...
«È vero, però se hai bisogno c’è ed pronta ad aiutarti».
«Senza pietà...» continua Vincenzo.
«No, questo non è vero».
Ti devo tanto come uomo, lavoro insieme ai figli tuoi, Milano fa di me quello che vuoi.
«Sembrerebbe scritta da me».
Ti lascio tutti i miei progetti, le mie vendette e la mia età.
«È la mia storia: inizia con Don Backy, finisce al ristorante. O meglio, continua al ristorante...».
«Vincenzo io ti sparerò perché non sai soffrire». Quanto soffre a Milano un uomo del sud?
«Non posso dirlo, quando arrivai ero un bambino. Papà lasciò le sue origini, ma fu contento di averlo fatto».


Guardando indietro cosa rimpiangi di più?
«Qualche successo mancato: Tipitipiti non andò bene, sembrava uno scioglilingua. Al sole piace il vento la insegnai io a Mal e la cantò con Luciano Tajoli che con quella canzone non c'entrava niente. Eppure a me l’avevano rifiutata...».

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