TIMM In memoria del fratello ritrovato

Orrori nazisti e legami familiari nell’ultimo romanzo dello scrittore tedesco

«Non ricordo la sua faccia, nemmeno quel che indossava, forse l’uniforme, ma la situazione è molto chiara: tutti che mi osservano e io che scopro i capelli biondi dietro l’armadio, e poi la sensazione di essere sollevato - sospeso in aria». È la prima pagina di Come mio fratello (Mondadori, pagg. 141, euro 15, traduzione di Margherita Carbonaro). L’autore è Uwe Timm, uno dei più importanti scrittori tedeschi contemporanei.
Nato nel 1940 ad Amburgo, aveva un fratello molto più grande, Karl-Heinz, che s’era arruolato volontario nelle Waffen-SS, divisione Totenkopf, una di quelle unità scelte usate da Hitler come pugno di ferro contro le difese sovietiche. Karl-Heinz faceva parte del quarto battaglione dei Panzerpioniere. La punta di diamante dell’Operazione Barbarossa. Il 19 settembre 1943 venne ferito gravemente da una granata anticarro che gli trapassò le gambe. L’amputazione di entrambi gli arti inferiori non fu sufficiente a salvarlo: morì un mese dopo nell’ospedale da campo 623, in Ucraina, a soli diciannove anni. Una tragica storia come tante altre durante la Seconda guerra mondiale, se non fosse che il bambino più piccolo, sollevato in alto dal militare in licenza, fissò dentro di sé il ricordo del fratello.
Di lui continuò a sentire parlare in casa: era rimasto qualche suo oggetto personale, poche foto, due o tre lettere spedite dal fronte, un diario che non dava risposte soddisfacenti. Col tempo quell’immagine sbiadita si trasformò in una cicatrice profonda che il padre, la madre, la sorella e l’ultimo nato, condividevano: se ne rendessero conto, oppure no, Karl-Heinz rappresentava il loro terreno comune. I Timm, al pari di tante famiglie uscite a pezzi dal conflitto, poggiavano i piedi su una lastra di cristallo. Sotto c’era l’Europa capovolta e un’idea dell’essere umano che avrebbero voluto cancellare.
I romanzi di Uwe Timm in Germania vanno per la maggiore: il più importante s’intitola Rot: è la storia di una passione politica spesa male, quella di Thomas Linde, specialista in discorsi funebri (ne imbastisce anche uno per un cane). Ricordiamo, fra i numerosi testi, Kerbels Flucht, il diario esistenziale di un taxista di Monaco; Der Mann auf dem Hochrad, divagazione su uno zio bizzarro che introduce l’uso del velocipede nella Coburgo di fine Ottocento, e La scoperta della currywurst, tradotto da Matteo Galli poco tempo fa per l’editore Le Lettere.
In questo scrittore c’è un sentimento di lungimirante e affettuosa comprensione nei confronti degli individui della nostra specie, come poteva avere Guy de Maupassant: metti tutto dentro un cesto, errori e successi, delusioni e potenze, alla fine trovi sempre, persino nelle vite meno significative, qualcosa che ti commuove. A cosa serve, nel fondo, esprimere giudizi se gli uomini si dimostrano comunque capaci di sbalordirci, nel bene e nel male? Se tale fosse davvero il groviglio di Uwe Timm, Come mio fratello era il suo appuntamento obbligato. Una di quelle spine che ogni persona si porta dentro. Appena la tocchi, provi fastidio. Se cerchi di estrarla, il dolore aumenta. È ciò che accade in questo libro, concepito come una specie di rendiconto: la scelta del fratello s’identifica con quella della Germania e chiama in causa, oltre all’educazione che i genitori hanno impartito al ragazzo, la responsabilità di un’intera nazione.
La storia del padre, pellicciaio e imbalsamatore, s’intreccia con quella della madre, colpita da un ictus cerebrale nella vecchiaia e con quella della sorella, resa invalida da una malattia mortificante: nessuna delle tre vicende può essere compresa a prescindere dal nazismo. Ma la croce uncinata da sola non basta. Lo scrittore, che si è deciso alla composizione del romanzo solo dopo la morte dei suoi famigliari, intraprende un percorso spirituale dentro se stesso e un viaggio fisico alla ricerca delle proprie radici spezzate: parte dalle case distrutte del dopoguerra, dai camion crivellati di proiettili, dai primi rifornimenti americani, studia i classici sui lager (soprattutto Uomini comuni di Robert Browning) e arriva fino in Ucrania dove tenta invano di raggiungere il cimitero in cui avrebbe dovuto trovare i resti del fratello.
«A 75 m Ivan fuma una sigaretta, un bel boccone per la mia mitragliatrice»: chi era davvero il giovane che scriveva sul diario questa nota? Il fratello piccolo gli vuole bene, ma non sa trattenere un moto di stupore: adesso, che potrebbe essere suo padre, vorrebbe sapere notizie ulteriori per comprendere, attraverso di lui, i misteri imperscrutabili dell’animo umano. E così, lasciando libero spazio alla propria sensibilità ferita, transita con straordinaria accortezza, dalla severità all’indulgenza, dalla pazienza all’indignazione, fino a identificarsi di fatto con la frase conclusiva di Karl-Heinz: «Qui chiudo il mio diario perché trovo assurdo fare un resoconto delle cose orribili che a volte succedono».
Non è, come si potrebbe temere, una sospensione di giudizio.

Ritrovando, in una piccola scatola di cartone, insieme alle lettere, alle decorazioni, e a un tubetto di dentifricio pietrificato, anche un pettine con quel che rimane del corpo del fratello, cioè qualche capello biondo, Uwe Timm ammette pubblicamente, di fronte a se stesso, che l’unica vera risposta possibile risiede nell’intensità della domanda. Tanto più forte sarà quest’ultima, tanto più chiara risulterà la fisionomia del fratello. Se l’indifferenza è, come è, il più grande peccato dell’uomo.

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