Tintoretto, uomo del nostro tempo più contemporaneo dei contemporanei

da Venezia

Ora che tutti, persino Maurizio Cattelan, hanno dovuto ammettere che il trittico di Tintoretto, posto all’inizio della mostra internazionale ILLUMInazioni, è per gli artisti più un Moloch che un monito, possiamo provare a domandarci cosa ha determinato la scelta della curatrice elvetica Bice Curiger. Perché è certamente vero che i tre quadri (Il trafugamento del corpo di San Marco e la Creazione degli animali dall’Accademia, L’ultima cena proveniente dalla Basilica di San Giorgio Maggiore) sono un richiamo al contesto locale. Ma l’altezza d’intenzione e di esiti, confrontati alle soluzioni risapute degli artisti chiamati ad esporre, pone una seria questione su cosa è davvero contemporaneo: ciò che appartiene ai nostri giorni per un dato di fatto anagrafico o, al contrario, quelle opere che sanno ancora parlarci, anche quando una parte del loro codice è perduto?
Tintoretto (1518-1594) non chiede istruzioni per essere compreso, e anzi comprende il tempo che viene dopo di lui. Anticipa Newton e Galileo, dando ai corpi quella pesantezza che ci spiega la legge di caduta dei gravi. Nell’Ultima Cena (1592-94) rompe con la concezione convenzionale dello spazio pittorico, al punto che Jean-Paul Sartre scriverà che nel tentativo di «restituire allo spazio la sua assurdità» si traduce lo smarrimento dell’epoca che vede allargarsi all’infinito i confini del mondo, mentre l’Europa perde la sua centralità. Possiamo dunque appuntarci questo primo aspetto, mentre ci aggiriamo nei padiglioni di Andorra, Haiti, Bangladesh: il cuore di qualsiasi rappresentazione, anche quella del sistema dell’arte, non necessariamente è al centro, dove ce lo aspetteremmo.
Ma Tintoretto è pure un uomo del suo tempo, totalmente Shakespeariano, anche al di là dell’aneddoto secondo cui preparava veri e propri modellini delle sue scene, sperimentando gli effetti come se fosse un set. Quella posposizione del tema principale (il mistero dell’Eucaristia) che vediamo sempre nella Cena, e che equivale a un raffreddamento sapiente, ci dice qualcosa anche in merito a tutti quei linguaggi che mirano oggi a dire tutto subito. Non c’è traccia, nelle stanze di ILLUMInazioni, di un tentativo di guidare lo spettatore dentro l’opera, con un’esperienza che sappia «sfondare» la visione superficiale dell’opera. I rari casi in cui accade qualcosa del genere rimandano al linguaggio del cinema e dell’audiovisivo, allorché l’arte fa sua anche la quarta dimensione, quella del tempo.
Pure sotto questo profilo Tintoretto è rivoluzionario: nel Trafugamento del corpo di San Marco (1562-66) assistiamo a una spericolato esperimento di narrazione diacronica. Tutto lo sviluppo dello storia è già lì, e si offre però alla vista come una sola immagine. Il che ci ricorda una cosa importante di un quadro: anche quando è sommamente vicino alla fotografia, non ambisce alla didascalia e alla documentazione, ma all’evocazione e alla trasfigurazione. Anche attraverso il superamento della divisione tra le arti figurative: i suoi teleri - le tele di vaste proporzioni applicate direttamente a una parete - compendiano la capacità di descrivere il rapporto tra l’uomo e lo spazio attraverso l’architettura e la scultura.
La Creazione degli animali (1550-53) pone infine una questione che è alla base di una buona metà delle opere presentate alla Biennale, ossia il rapporto tra l’arte e il sapere scientifico. Tintoretto ci mostra senza reticenze che anche la scienza può essere poesia e racconto del mondo.

Ma lo fa esclusivamente con gli strumenti dell’arte, senza curarsi della verisimiglianza e tanto meno della mimesi. Non ha bisogno della tecnologia per sentirsi Dio e rifare il mondo. Non fabbrica nebbia né tassidermizza piccioni. E ci ricorda che un artista non è necessariamente il dottor Frankenstein, né un apprendista stregone.

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