Torino, manifesti per smascherare gli agenti infiltrati

Pusher e clandestini di Porta Palazzo segnalano i "nemici" in borghese per scampare ad arresti e retate. Scritte in arabo, italiano e inglese: schedate anche le auto degli agenti infiltrati

Torino, manifesti  
per smascherare 
gli agenti infiltrati

Torino - È come se Jesse James, il più celebre e ricercato fuorilegge del West, avesse appiccicato all’ingresso del saloon la foto del suo avversario. Del suo più ostinato, instancabile cacciatore. Dello sceriffo Edwin Dan, tanto per dirne uno. E sotto, la fotografia, avesse pure aggiunto la più classica delle scritte cinematografiche: «Wanted». È come se, appunto. Perché l’ultima, illuminante conferma della poco attendibile direzione di marcia presa dal mondo in cui viviamo, arriva da qui: Porta Palazzo. Torino, Italia. Perché è qui, sul muro accanto al negozio di tappeti e moquette Rebaudo, ed è sempre qui, qualche centinaio di metri più avanti in via Tre Galline che i veri padroni di Porta Palazzo ovvero spacciatori, extracomunitari senza fissa dimora né papier, nonché borseggiatori e delinquenti dal coltello facile, hanno pensato bene di mettersi in guardia reciprocamente. Con uno «wanted» alla rovescia. Perché la loro fortezza non venga espugnata, controllata, magari anche ripulita, dalle forze dell’ordine. «Attenti a questa faccia! Si veste come una ragazza qualsiasi ma in realtà è un agente del nucleo progetti e servizi mirati della Polizia municipale. Presta servizio sugli autobus in appoggio ai controllori e durante le retate. Invasata pericolosa, amante delle armi...».

Volantini, manifesti e ciclostilati in proprio, gran parte dei quali scritti rigorosamente in arabo, che i gestori dello spaccio e dei vari racket del rione, hanno incollato nottetempo praticamente ovunque. Volantini per smascherare agenti, vigili urbani e carabinieri in borghese che pattugliano la zona. Segnali seminati sui sentieri dell’illegalità come la mollica di pane di Pollicino, per assicurare scorciatoie d’impunità, offrendo in primo piano le targhe delle auto-civetta e i connotati dei relativi occupanti. «Forse è stata la risposta alla retata che la polizia ha fatto l'altro giorno» sbotta la signora Anna de Luca, dal 1968 in servizio permanente effettivo dietro al suo banco di pasta fresca al mercato. «Sono venuta qui a Porta Palazzo che ero una ragazzina. Era un posto di fascino, unico. La più grande piazza commerciale a cielo aperto del mondo. Si ascoltava il chiacchiericcio della Torino vera, adesso invece guardi lo schifo che ci sta attorno. Di qua gli zingari che arrivano a frotte, in un attimo mettono in mezzo il malcapitato di turno e gli fregano il portafoglio, e di là i romeni che si ubriacano, insultano. E diventano pericolosi se solo provi a dirgli qualcosa. E quando il mercato chiude questa diventa la terra di nessuno. L’altra mattina ne hanno portati via 25, sui cellulari. Ma a che serve? Il giorno dopo ce ne sono altri e altri ne arriveranno».

Mentre scriviamo queste righe cominciano le pulizie generali nel senso che gli automezzi dell’Amiat, la municipalizzata della nettezza, stanno cercando di riportare alla normalità quel campo di battaglia popolato di arance e pomodori spiattellati, che è piazza Repubblica dopo ogni giorno di mercato. Ma scope e lavaggio entrano in funzione, supportate da carabinieri e agenti anche sui muri, dove manifesti e volantini vari vengono staccati, uno dopo l’altro, rapidamente. «Hanno le targhe delle auto civetta? Vorrà dire che cambieremo auto. Non ci fanno certo paura», tuona il comandante provinciale dell’Arma, Antonio De Vita. E un bel chissenefrega arriva anche dalla vigilessa che ha ottenuto da questo insensato most wanted alla rovescia, una popolarità indesiderata. «Continuerò semplicemente a fare il mio lavoro, a far rispettare le regole...» dice.

Osservano un po’ insospettiti la nostra personalissima ronda gli extracomunitari che vanno e vengono dallo sbrindellato portone al civico 12 di piazza Repubblica. E come se, al di là di quel portone, un tempo frequentato dalle madamine che compravano i tessuti dal «Negozio Gianduia» di Giuseppe Negro e figli, ci fosse una casbah che riproduce per partenogenesi magrebini e mediorientali di ogni età. I manifesti? Mah, forse, può darsi. Insomma non ci hanno fatto troppo caso gli allievi che si radunano a spese del Comune al «The gate», locale all’ingresso della Galleria Umberto I, per imparare gratuitamente l’italiano, l’arabo e il romeno. Eppure i volantini erano anche qui, anche là nell’androne del centro «Multi Kulti», in via della Basilica, spazio dedicato alle discipline corporali d’altre terre ed etnie tipo danza Afro e Thai Chi Chuan. Come se i vari kebab e falafel fast food non la dicessero lunga sulla popolazione di questi luoghi.

Sbriciolati i manifesti modello far West rimane sul muro di via Milano soltanto una scritta: «Vendetta per il piccolo martire Youssef» che poi è il bimbo di Raffaella Castagna e Azouz Marzouk, massacrato a Erba, in via Diaz. Strani, inquietanti intrecci in questo mondo imboccato, da troppa gente, contromano.

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