Ventisette anni dopo l’arresto di Enzo Tortora la seconda sezione civile del Tribunale di Napoli ha condannato Lino Jannuzzi e Sergio De Gregorio a pagare, in solido tra di loro, la somma di 150mila euro, più gli interessi calcolati a partire dal 1991 (in tutto 280mila euro) a favore di Giorgio Fontana, il giudice istruttore che ha gestito l’inchiesta su Tortora e che si era poi dimesso dalla magistratura in polemica con il Csm, che aveva aperto un procedimento disciplinare su di lui e sui due pm del processo Lucio Di Pietro e Felice di Persia (procedimenti che poi finirono nel nulla) e che ora fa l’avvocato a Napoli. In questa veste Fontana aveva già querelato Lino Jannuzzi in sede penale, ne aveva ottenuta la condanna e ne aveva già riscosso un risarcimento di diversi milioni di lire. Sergio De Gregorio, attualmente senatore del Pdl, è stato cronista giudiziario de Il Giornale di Napoli, di cui Lino Jannuzzi è stato direttore, e in occasione della morte di Enzo Tortora, stroncato dal cancro il 20 maggio 1988, aveva scritto un articolo su Tortora, su Fontana e sul processo. Per quell’articolo l’autore e il direttore del giornale sono stati condannati oggi, ventidue anni dopo.
L’INIZIO DELL’INCUBO
Enzo Tortora fu arrestato alle quattro del mattino, mentre dormiva all’Hotel Plaza di Roma, venerdì 17 giugno 1983. Fu portato in questura e vi fu trattenuto fino alle undici, nonostante fosse stato colpito da collasso cardiaco, prima di trasferirlo a Regina Coeli: il tempo necessario perché la notizia del suo arresto si diffondesse e si raccogliesse dinanzi alla questura una folla di giornalisti e di fotografi.
L’ordine di arresto per associazione a delinquere di stampo camorristico era stato spiccato dalla procura di Napoli sulla base delle accuse partite da due «pentiti», Pasquale Barra e Giovanni Pandico. Pasquale Barra, detto «’o animale», è un feroce assassino, famoso per avere ucciso in carcere Francis Turatello, per avergli sventrato a calci il torace e strappato il cuore per poi mangiarselo. Giovanni Pandico «o pazzo», dichiarato psicolabile e paranoico, è entrato e uscito dai manicomi giudiziari, ha sparato al padre, ha avvelenato la madre, ha dato fuoco alla fidanzata, ha fatto una strage nel municipio del suo paese, ha sparato al sindaco e alle guardie e ha ucciso gli impiegati che tardavano a consegnargli il certificato di nascita.
LA GRANDE RETATA
Sulla base delle dichiarazioni di questi due «pentiti», vennero spiccati 855 mandati di cattura e quel «venerdì nero» vennero arrestati assieme a Tortora 412 presunti camorristi (gli altri quattrocento erano già in carcere). Ma 87 di costoro saranno scarcerati perché arrestati per sbaglio, per «omonimia». Comunque la maggior parte degli arrestati sono personaggi sconosciuti e ignoti. Ma l’operazione viene fin dall’inizio presentata dagli inquirenti, e gonfiata dalla maggioranza dei compiacenti giornalisti, come una «crociata», la «guerra alla camorra», il colpo mortale inferto alla «nuova camorra organizzata» di Raffaele Cutolo.
Ma gli inquirenti accreditano le voci, sempre amplificate dai giornalisti, che nella rete sono caduti personaggi «insospettabili». Quando si tireranno le somme si vedrà che codesti «insospettabili» si riducono a una manciata di mediocri personaggi, quattro o cinque sui quattrocento arrestati. L’unico personaggio noto e conosciuto e «insospettabile» tra gli arrestati è Enzo Tortora, e questa è la radice delle sue disgrazie e dell’accanimento che si scatena contro di lui. Ed è la ragione per cui la «crociata», lo storico «processo alla camorra», finisce per diventare fatalmente il processo a Enzo Tortora, e come tale verrà vissuto, discusso e ricordato.
Dopo sei mesi dall’arresto Tortora venne messo a confronto con due nuovi «pentiti»: Gianni Melluso, detto «Cha cha cha», che racconta di aver consegnato a Tortora pacchi di cocaina agli angoli delle strade di Milano, e Andrea Villa, che viene introdotto nella stanza dell’interrogatorio con la testa coperta da un cappuccio nero e afferma di aver visto Tortora a Milano a pranzo e a cena con Francis Turatello, di cui Villa faceva il guardaspalle. Mano a mano che si va avanti, e tanto più che mancano sempre più i riscontri, aumenta il numero dei «pentiti» che accusano Tortora. Alla fine se ne conteranno una ventina.
I «PENTITI» A COMANDO
Michele Morello, il giudice che ha scritto la sentenza con cui in appello Tortora verrà poi assolto, ha severamente censurato il sistema con cui i nuovi «pentiti» venivano ammaestrati. Si procedeva così: si prendevano i presunti «affiliati» indicati da Barra o da Pandico o da Melluso, e li si rinchiudeva nella stessa caserma, la famosa caserma Pastrengo, dove erano rinchiusi Barra, Pandico e Melluso, e la notte si lasciavano aperte le porte delle celle, in modo che i nuovi arrivati potessero «fraternizzare», magari banchettando e sbevazzando, con coloro che li avevano indicati, e questi potessero «ragionare» e istruirli e convincerli ad accusare Tortora. Sui giornali di quei giorni si poteva leggere tranquillamente che per Melluso, «Gianni il bello», in caserma era stata allestita una specie di garconnière con ragazze e champagne.
GLI INTERROGATORI
Tortora fu interrogato solo dopo settimane di cella di isolamento. In tutto lo interrogheranno per tre volte. Al primo interrogatorio tirano fuori la storia dei centrini: un camorrista detenuto, Domenico Barbaro, ha spedito dal carcere a Tortora, perché li mostrasse ai telespettatori di «Portobello», certi centrini da lui stesso ricamati in cella. Ma i centrini si persero nei meandri della Rai e non furono mostrati in video. Spuntano allora delle lettere di Barbaro a Tortora in cui il camorrista si lamenta: rivuole indietro i centrini o li vuole pagati. Secondo gli inquirenti è la prova del traffico di stupefacenti: i «centrini» starebbero per «cocaina». Si scoprirà alla fine che le lettere a «Portobello» per conto di Barbaro le ha scritte Pandico, che è stato Pandico a combinare con Barbaro il trucco della trasformazione dei centrini in cocaina e poi a raccontare la storiella agli inquirenti.
Al secondo interrogatorio gli inquirenti si presentano a Tortora, dopo qualche mese, con in mano una «prova schiacciante» della sua affiliazione alla camorra. Nella agendina sequestrata a Giuseppe Puca, detto «’o giappone», uno dei più feroci killer di Cutolo, hanno trovato il nome di Enzo Tortora con due numeri di telefono. A condurre l’interrogatorio è personalmente il giudice istruttore Giorgio Fontana, il cui onore sarebbe stato offeso dall’articolo di Sergio De Gregorio sul giornale diretto da Lino Jannuzzi in occasione della morte di Tortora. Ma un giorno si presenta in procura una signora: mi chiamo Catone Assunta, dice, e sono la donna di Puca, questa agendina che avete sequestrata a casa di Puca non è la sua ma la mia, potete controllare, ci sono i numeri dei miei parenti e delle mie amiche, e questi due numeri dove avete letto «Enzo Tortora», io ho scritto, la grafia è mia, «Enzo Tortona». È un mio amico di Caserta, il prefisso è 0823, provate a chiamare...
Al primo interrogatorio hanno scambiato centrini per cocaina, al secondo interrogatorio hanno letto «Tortora» per «Tortona», al terzo interrogatorio l’inquisizione napoletana porta come testimone Gianni Melluso, un balordo, un ladruncolo di periferia, che ha già collezionato un bel po’ di condanne per truffe e rapine, in genere non riuscite.
IL VALZER DELLE SENTENZE
È sulla base di «pentiti» come questi e delle storie da loro raccontate che, dopo sette mesi di dibattimento e 225 udienze, il 17 dicembre del 1985, due anni e mezzo dopo il blitz del venerdì nero, i giudici di Napoli hanno condannato Enzo Tortora a dieci anni e sei mesi di carcere.
Meno di un anno dopo, il 15 settembre del 1986, Tortora è stato assolto in appello con formula piena. Con lui sono stati assolti altri 131 imputati, che con i 102 assolti in primo grado fanno 233 e con i 70 assolti nel secondo troncone salgono a oltre 300, senza contare gli 87 «omonimi» arrestati e poi liberati: fanno quasi tre quarti della grande retata.
Otto mesi dopo, il 18 maggio del 1987, la Cassazione completerà l’opera, confermando l’assoluzione di Tortora e degli altri 131 e annullando un altro po’ di condanne.
Nel frattempo Tortora era stato candidato dai Radicali alle elezioni europee, quando era ancora agli arresti domiciliari, ed era stato eletto con 800mila voti di preferenza, ma si era dimesso, sollecitando personalmente dal Parlamento europeo l’autorizzazione all’arresto, era tornato in Italia e si era «consegnato» alla polizia a Milano, in piazza del Duomo, la vigilia di Natale.
Un anno dopo la sentenza della Cassazione Tortora morirà, stroncato da un tumore: «In quelle orrende mura del carcere - dirà nell’ultima sua apparizione in televisione collegato dal suo letto nell’ospedale - mi hanno fatto esplodere una bomba atomica dentro...». È il 20 maggio del 1988,e per l’occasione il cronista giudiziario de Il Giornale di Napoli, diretto da Lino Jannuzzi, ha rievocato le vicende del processo. Ventidue anni dopo altri giudici, sempre di Napoli, hanno condannato il cronista e il direttore a pagare.
INSULTATO ANCHE DA MORTO
A Gianni Melluso è andata meglio. Dopo avere calunniato impunemente il vivo, prese a calunniare il morto. Nel novembre del 1992, quattro anni dopo la morte di Tortora, il settimanale Gente pubblicò una sua intervista sotto il titolo: «Gianni Melluso esce dal carcere e insiste: Tortora era colpevole». Dice proprio così: «Io gli davo la droga e lui mi pagava». Le figlie di Tortora sporsero querela per calunnia. Due anni dopo la pubblicazione dell’intervista e la querela, il gip del tribunale civile e penale di Milano Clementina Forleo respinge la querela, condannando le figlie di Tortora alle spese processuali, e motiva: «La sentenza di assoluzione del Tortora rappresenta soltanto la verità processuale sul fatto-reato a lui attribuito e non anche la verità reale del fatto storicamente verificatosi».
Due mesi dopo, l’allora sostituto procuratore generale della Repubblica a Milano Elena Paciotti, che poi sarà membro del Csm, presidente dell’Associazione magistrati e infine deputato europeo nelle liste Pd-Pds, respinge l’istanza di apertura del procedimento con questa motivazione: «L’assoluzione di Enzo Tortora con formula piena non è conseguenza della ritenuta falsità delle dichiarazioni di Gianni Melluso e di altri chiamanti in correità, ma della ritenuta inidoneità delle stesse a contribuire valida prova d’accusa...».
L’ULTIMO SFREGIO
Nessuno dei «pentiti» sbugiardati è stato incriminato, processato e condannato per calunnia. Nessuno dei magistrati che hanno gestito l’inchiesta è stato inquisito e punito dal Csm. Anzi, hanno fatto tutti una splendida carriera. Nessun risarcimento è stato riconosciuto ad Enzo Tortora o ai suoi eredi.
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