Poiché un filosofo del diritto non lo sono nemmeno io, mi limiterò a identificare una delle tante maniere nelle quali un argomento del genere potrebbe essere affrontato. Nel sovrapporre giustizia, diritto e legalità, la traccia pone due domande, intersecate per altro l'una con l'altra, che nell'ultimo decennio circa sono tornate di bruciante attualità: la prima si interroga sulla necessità che il potere sia ancorato a un qualche valore "assoluto"; la seconda si chiede quali possano essere questi valori, e dove li si possa trovare.
Quasi tutte le citazioni che il maturando avrebbe dovuto commentare pongono il problema di una nozione di giustizia precedente - e sovrastante - le leggi dello Stato, e della necessità che il diritto positivo sia valutato alla luce di questa nozione. La presenza di un ideale normativo di giustizia - la fiducia insomma, per dirla con la citazione di Aristotele, nella percezione che l'uomo ha "del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto" - consentirebbe di valutare i sistemi politici e giuridici, di stabilire quali siano i migliori, i peggiori e i pessimi, e di riformarli quando necessario.
Al contempo però molte delle citazioni, e in particolare quelle di Sidgwicke Höffe, sottolineano l'estrema difficoltà che si incontra quando questa nozione astratta di giustizia la si vuole definire in concreto. La modernità ha infatti eroso tutti i fondamenti della conoscenza, relativizzando ogni valore al suo contesto storico quando non al singolo individuo che lo ha sposato.
E in queste condizioni diviene assai difficile identificare una nozione "assoluta" di giustizia che ci permetta di valutare i singoli, concreti sistemi politici e giuridici. Seppure in forma minima, tuttavia, quella nozione "assoluta" della giustizia dovremo pure definirla. A pena, come ci ricorda ancora Beccaria, di ricadere "nell'anticostato d'insociabilità".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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