Quel tradimento di classe che è ancora da capire

Nel saggio di Carandini, la rovinosa svolta a sinistra dei figli dell'antifascismo liberale

Quel tradimento di classe che è ancora da capire

L' ultimo della classe, di Andrea Carandini (Rizzoli, 785 pagine, 28 euro), è il bellissimo e fulminante titolo di un libro estenuante e estenuato, costruito su più strati eterogenei e non sempre ricondotti a sintesi unitaria. Il sottotitolo, «archeologia di un borghese critico», rimanda alla professione del suo autore da un lato, antichista di fama, alla sua estrazione familiare dall'altro. Suo padre, Nicolò Carandini, fu il primo ambasciatore a Londra della neonata Repubblica italiana, nonché il rampollo di una casata che affonda il suo nome nella storia d'Italia. Sua madre, Elena Albertini, era la figlia di Luigi Albertini, il direttore che fece del Corriere della Sera il primo quotidiano italiano e che fu poi esautorato da Mussolini per il suo antifascismo. Tanto il ramo paterno era di estrazione nobiliare, tanto quello materno, i Giacosa, apparteneva alla migliore borghesia ottocentesca delle arti e delle professioni, con intrecci familiari e amicali che vanno da Tolstoi a Croce, da Boito a Fogazzaro. Classe 1937, con quel titolo l'autore sembra insomma suggerire due cose, l'understatement di chi rispetto a un passato così illustre dichiara il suo stare in fondo, l'orgogliosa rivendicazione di esserne comunque il prodotto ultimo, con il quale e nel quale quel passato si estingue, non ha più un futuro.

Questa duplicità tinge l'intero libro di colori nostalgici rispetto al tempo che fu, di rabbia disillusa per ciò che sarebbe potuto essere e però non è stato, tanto più rabbiosa e tanto più disillusa perché della «borghesia illuminata» di chi lo mise al mondo, Andrea Carandini più che un critico fu, al tempo della sua maturità, la fine degli anni Sessanta, la metà degli anni Ottanta, un nemico, un traditore di classe, si sarebbe detto allora. Nel novembre del 1974, eccolo partire per la Cina «invaghendomi in un picco della mia giovanile idiozia, per quella che a me pareva, grazie a un'abilissima propaganda mistificatrice, una riedizione dell'Europa alto-medievale - come se si potesse desiderare un ritorno al tempo della ruralizzazione delle realtà urbane -, mentre quel regime comunista nascondeva un'enorme distruzione di uomini, costruzioni, tradizioni, cose e libri di straordinario valore». Va detto che la «giovanile idiozia» è qui, anagraficamente, quella di un quasi quarantenne

Alla base di questo «tradimento di classe» c'è naturalmente l'idea di un mondo nuovo, «un progressismo assai vagamente inteso, come se per far bene bastasse abbandonare qualsiasi tradizione per qualsivoglia innovazione. Vedevo nel proletariato l'unico erede plausibile della borghesia» aggiunge a mo' di spiegazione. «Solo il proletariato conservava i valori della moralità e dell'operosità che erano stati della borghesia in ascesa (). Si sarebbe trattato di raccogliere il meglio della civiltà politica e culturale della borghesia e di passarlo alla classe popolare alle cui navi il vento storico gonfiava allora le vele». Risultato: «È poi accaduto tutto il contrario di quanto avevo sperato (). Tradire l'ingiusto è doveroso, ma tradire con tracotanza e per sempre, cadendo magari in un'ingiustizia maggiore rispetto a quella che s'intendeva superare, significa tagliare le radici simboliche sotto i nostri talloni, di modo che alla fine ci siamo diseredati da noi stessi().I barbari questa volta siamo stati noi».

Sono giudizi duri, giudizi sofferti e per certi versi giudizi esemplari, ma non faremo a Carandini il torto di crocifiggerlo sull'altare delle sue illusioni perdute, delle sue previsioni sbagliate, di un'ideologia bislaccamente accettata. La questione è più ampia, e riguarda la sbornia collettiva di cui fu preda la sua generazione, «l'orgia di ribellione generazionale», la definisce, quella sbornia collettiva che nel 68 fece dimenticare non solo a lui «nonni e padre» e picconare «la trascorsa civiltà -l'unica di cui potevamo disporre». Viene da chiedersi come e perché «nonni e padre» ne furono a loro volta vittime più o meno consenzienti, oppure vittime sacrificali incapaci di reagire. Qui si apre un tema interessante, dal punto di vista storico, e che ha a che fare con il liberalismo in Italia.

All'indomani della Seconda guerra mondiale, si delineò nel nostro Paese un curioso misto di heri dicebamus da un lato, di sudditanza culturale dall'altro. Del primo facevano parte quei liberali per i quali il fascismo, crocianamente parlando, era stato una sorta di invasione degli Hixos, una tribù straniera venuta dal nulla e poi scomparsa nel nulla, e quegli esuli antifascisti alla Nitti che di quel regime ventennale ignoravano tutto e non volevano sapere nulla. Del secondo, un robusto complesso di inferiorità nei confronti del marxismo e del comunismo, artefice di un liberalismo di sinistra in cui quest'ultimo termine guardava con sospetto e degnazione l'altro. Come scrive Carandini, ancora fino al 1997 Norberto Bobbio si rammaricherà per il crollo del comunismo e solo nel 2001 ammetterà che giustificarlo era stato invece un errore: «Era comprensibile che cercassimo di rappresentarcelo come un fenomeno progressivo. Ci sforzavamo di vederne gli aspetti positivi, che dopo la caduta non abbiamo più visto. Dopo la sconfitta del comunismo siamo stati costretti a rivedere le idee che ci eravamo fatti su di esso».

Ciò aiuta a capire non solo la debolezza intrinseca del liberalismo italiano, ma anche la tendenza nei suoi elementi migliori a sconfessare la realtà quando non andava d'accordo con l'idealità. Da qui il disprezzo nei confronti della piccola e media borghesia per le sue compromissioni con il fascismo, senza mai voler ammettere che vent'anni di regime in uno Stato unitario che aveva meno di un secolo di vita, andavano compresi e non semplicemente condannati e/o espunti dalla storia nazionale.

Questa polemica contro i cosiddetti «italiani alle vongole», senza carattere, sena nerbo, senza dignità sociale, paradossalmente venne portata avanti da un liberalismo progressista, questo sì «vongolaro», di cui un esempio illustre resta Eugenio Scalfari, da Carandini scambiato a lungo, bontà sua, per un «Albertini aggiornato» e solo in tarda età sistemato nell'icastica definizione di «un gaudente da Grand hotel e un corsaro». Viene da qui la logica di un Paese dove «la componente democratica si è allargata a dismisura mentre la componente liberale è andata riducendosi sino ad annullarsi, come nel merito, nell'istruzione, nelle virtù civiche e nell'etica civile».

L'ultimo della classe è un libro interessante, nonostante i difetti di costruzione, l'eccessivo narcisismo nonché verbosità, l'incapacità a scegliere tra il superfluo e l'essenziale.

È il ritratto fedele di cosa sia stata certa élite intellettuale del secondo dopoguerra, nata bene e però complessata rispetto ai propri padri, ribelle a loro e insieme al proprio ceto sociale, incapace e insieme velleitaria nella sua ansia di rinnovarlo. Difficile pensare che nell'Italia di oggi, da Carandini così deprecata, non vi sia anche, e quanto profonda, la sua impronta.

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