TRAFALGAR Il mito di Napoleone cola a picco

Il 21 ottobre di due secoli fa la battaglia navale che segnò il tramonto del sogno francese di piegare l’Inghilterra

Il mare era calmo e non tirava che una brezza lieve il giorno della battaglia di Trafalgar, il 21 ottobre 1805. Tempo splendido per combattere, soprattutto per chi disponeva delle navi più agili e maneggevoli, oltre che della maggior esperienza di marineria. Era questo il vero vantaggio dell’ammiraglio inglese Horace Nelson ed era la ragione per la quale pur disponendo di un numero di navi minore rispetto al nemico, e più piccole, stava serrando le distanze, per quanto il vento lo concedeva.
In una riunione congiunta degli ammiragli francesi e spagnoli, tenutasi a Cadice qualche giorno prima, la mesta decisione comune era stata quella di non uscire in mare a sfidare Nelson e i suoi perché, come aveva scritto a Madrid il comandante spagnolo Escano: «Ci mancano equipaggi esperti, non li abbiamo e non esiste modo per procurarli... Per fortuna il consiglio di guerra ha deciso di rimanere all’ancora». Ma pochi giorni dopo il consiglio di guerra era stato smentito dal comandante in capo, l’ammiraglio francese Villeneuve che aveva stabilito di uscire in mare con la flotta congiunta della Francia e della Spagna e affrontare la riconosciuta superiorità inglese, con la quale fino a quel momento non aveva osato misurarsi. Ci vollero due giorni per portare tutte le navi fuori dal porto interno e farle muovere verso l’alto mare. Cosa aveva spinto Villeneuve a cambiare idea? La più semplice delle motivazioni: l’orgoglio. Aveva saputo che Napoleone non era contento del suo operato e che aveva mandato a sostituirlo il vice-ammiraglio Rosily, il quale viaggiava via terra ed era già arrivato a Madrid. Visto a rischio il proprio comando Villeneuve si fece venire il coraggio e la determinazione che gli erano mancati fino a quel momento: come un tuffatore pauroso si lanciò nel vuoto a occhi chiusi sperando di non farsi troppo male.
Niente rendeva certo il disastro. Nelson un genio, gli inglesi grandi marinai, tutto vero. Ma le vittorie più spettacolari le avevano colte ad Abukir e a Copenhagen, contro flotte che si erano lasciate sorprendere ancorate ed erano state facile preda di unità in grado di manovrare, decidere come posizionarsi rispetto all’avversario e da lì spazzarne i ponti a cannonate. Combattere in mare aperto era diverso. Una tradizione consolidata voleva che le flotte avversarie avanzassero l’una verso l’altra in fila indiana, stringendo le distanze fino ad affrontarsi su due file parallele. In quella situazione, immaginava Villeneuve, l’immenso vantaggio numerico e di grandezza delle navi dei franco-spagnoli avrebbe compensato almeno in parte la diabolica abilità degli inglesi. Poteva sperare in un nulla di fatto, molte battaglie navali erano finite così nell’epoca della marineria a vela; oppure in una sconfitta di misura. Forse anche quella sarebbe bastata a rialzare il suo prestigio. Sarebbe stato l’unico ammiraglio a resistere a Nelson. Il quale però aveva progetti ben diversi: combattere una battaglia all’antica non lo interessava. Voleva una vittoria e intendeva prendersela.
Anziché formare una colonna con le sue navi ne formò due, una dietro la sua ammiraglia Victory e l’altra dietro alla Royal Sovereign del suo vice e amico Collingwood, e le diresse verso il centro dello schieramento nemico, quasi ad angolo retto. Così facendo dovette sopportare il fuoco di fiancata dei franco-spagnoli al momento del taglio della loro formazione, ma da allora in avanti aveva risolto il problema dell’inferiorità numerica, dato che le navi di testa e di coda della lunga linea nemica era troppo lontane per partecipare al combattimento, e poteva stare sicuro che si sarebbe continuato a lottare fino alla vittoria definitiva. Le navi erano vicinissime e l’assenza di vento impediva la fuga.
Lo scontro fu durissimo. Per una battaglia navale spaventoso, con perdite fra morti e feriti calcolate in 8.500 dei 50.000 uomini che parteciparono alla battaglia. Francesi e spagnoli forse non erano bravi marinai, ma non era il coraggio che mancava loro. Anche Nelson fece le spese della durezza degli scontri. L’ammiraglio, già privo di un occhio e di un braccio per le ferite riportate in combattimento, fu colpito alla colonna vertebrale da un colpo di moschetto sparato da una coffa della Redoutable, il vascello contro il quale la sua Victory era impegnata. Alle 16.20, mentre la battaglia terminava, si spense nella sua cabina. Fu subito deposto nella bara che era già pronta. Nelson se l’era fatta fare con l’albero di maestra di una nave francese affondata ad Aboukir e la portava sempre con sé. Era un uomo originale. Poco dopo la sua morte si alzò il vento e arrivò una furiosa tempesta che spezzò i cavi di rimorchio e trascinò sugli scogli le prede catturate dagli inglesi.

Poco male per loro, avevano sconfitto Napoleone, anche se sarebbero occorsi altri dieci anni per finirlo, e conquistato l’egemonia sui mari di tutto il mondo, che avrebbero mantenuto per un secolo. Se la tempesta fosse scoppiata con mezza giornata di anticipo non ci sarebbe stata battaglia.

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