Con "Tribuna Politica", il Parlamento entra nelle casa degli italiani

Il 26 aprile 1961 iniziava la fortunata trasmissione televisiva che contrapponeva dirigenti di partito e giornalisti. Memorabili le polemiche tra Mangione e Pajetta e il distaccato «Ella» con cui Togliatti si rivolgeva agli avversari

Con "Tribuna Politica", il Parlamento entra nelle casa degli italiani

In un Italia ancora in pieno boom economico, con tutte le percentuali di crescita in doppia cifra, per la prima volta si cominciò a parlare di politica in televisione. Dopo il primo esperimento dell'anno prima con «Tribuna elettorale», poche puntate in vista delle elezioni amministrative, la Tv di Stato iniziò giovedì 26 aprile 1961 una nuova serie: «Tribuna politica». Un appuntamento di metà settimana, rimasto fino alla fine degli Settanta, in cui gli uomini politici rispondevano alle domande di giornalisti di varie testate. Spesso velenose, con conseguenti risposte ancora più piccate. Storici gli scontri tra il giornalisti socialdemocratico Romolo Mangione e gli esponenti del Pci. Ma sempre nel massimo rispetto, senza mai gridare, senza darsi sulla voce e soprattutto usando rigorosamente il «Lei». E qualche volta, come nel caso del segretario del Pci Palmiro Togliatti, persino dell'«Ella»
Gli archivi Rai ci restituiscono vecchie immagini in bianco e nero, tremolanti, soffuse da un nebbiolina azzurrognola. Anche per le tante sigarette accese in studio. La trasmissione nasceva dall'esperienza di «Tribuna elettorale», andata in onda nell'ottobre del 1960 in vista della tornata amministrativa di novembre. Erano i tempi in cui il «Migliore» non andava tanto per il sottile quanto a comunicazione. Parla che ti parla, ma alla fine tirava sempre fuori una grande tavola con il simbolo della Pci e diceva «Se volete votare comunista fate una croce qui». Sempre con grande compostezza e rispetto reciproco, anche se già allora non mancavano i colpi bassi. Come quando Gino Pallotta chiese conto a ministro degli Interni Mario Scelba della presenza nelle liste siciliane del mafioso Genco Russo. Scelba annaspò, sbiancò, strabuzzò gli occhi e non trovò di meglio che replicare: «La mafia in Sicilia non esiste più da tempo».
Nella primavera dell'anno dopo, il primo ministro Amintore Fanfani decise dunque di riproporre l'esperimento, questa volta non più collegato a una scadenza elettorale. La scenografia ricordava un po' le aule universitarie, un tavolo a cui era seduto il politico di turno affiancato dal moderatore, davanti su una tribunetta a semicerchio, tre file di giornalisti. A moderare il dibattito venne scelto Jader Jacobelli, notista politico della radio fin dal 1946. Niente «santorate» però, il suo era unicamente un ruolo notarile: dava la parola ai vari giornalisti, le invitava a porre le domande in forma chiara evitando i comizi e nel contempo ricordava al politico di rispettare i tempi. Memorabile la richiesta a Palmiro Togliatti di concludere «Mi perdoni segretario ma sta sforando i tempi» e il serafico leader «Ella perdoni me, se mi sono dilungato».
Ma non sempre i dibattiti avevano questo tono, soprattutto quando in trasmissione irrompeva il fumantino Mangione, editorialista dell'organo del Psdi «L'Umanità». Di fronte a un comunista vedeva letteralmente rosso e caricava peggio di un toro. Epico l'episodio del 1964 quando Pajetta fu sfiorato da un pesantissimo codice penale sovietico, lanciato dall'iroso giornalista. Non che Pajetta nella lotta si trovasse a disagio, solo che preferiva colpire con una tagliente ironia, non meno micidiale dei ponderosi tomi giuridici. In un'occasione si rivolse sempre al suo personale «nemico» appellandolo con il titolo di onorevole. «Non sono onorevole» rispose seccato Mangione. «Ma come, ho visto che era in lizza alle ultime politiche...oh mi scusi...non l'hanno eletta...non lo sapevo...» replicò Pajetta assumendo un'espressione mortifica. Perfida fu anche la battuta di Togliatti: «Lei si chiama Mangione, ma di politica ne mastica poca». Ma anche Giorgio Almirante sapeva bucare bene il video, con i suoi occhi di ghiaccio, la sua calma. Anche perché, con grande scandalo, puntualmente rivelava i giochi sottobanco, come quando la Dc, che a parole disprezzava il suo Movimento, chiese i voti per eleggere Antonio Segni Presidente della Repubblica.
Ma ormai si andava rapidamente verso la fine degli anni Sessanta, la lotta politica si faceva sempre più aspra e soprattutto veniva combattuta sulle piazze con l'irrompere di nuovi soggetti e nuove istanze. A innervare una trasmissione ormai stanca, ci penseranno personaggi come Nino Nutrizio, uno dei pochi a mettere in difficoltà il segretario del Pci, Enrico Berlinguer. Nel 1976 arrivò infatti in trasmissione con un pacco di riso e uno di pasta che, avendo tempi di cottura diversi, non potevano essere stare insieme. «Come democrazia e comunismo». Berlinguer ammutolì, non riuscendo riuscendo a replicare con un paragone altrettanto efficace. L'ultimo scandalo fu appannaggio di uno dei più grandi comunicatori politici di tutti i tempi, Marco Pannella. Il segretario del Partito radicale si presentò nel 1978 in studio insieme a Emma Bonino, entrambi imbavagliati e con un cartello al collo: «La commissione parlamentare della Rai abroga la verità e l'informazione». Rimasero così dieci interminabili minuti, tutto il tempo loro concesso, e nei giorni successivi non si parlò d'altro. Ma la televisione era ormai diventata a colori, un'epoca era ormai tramontata e «Tribuna politica» andò mestamente in pensione per lasciare il posto ad animate discussioni in cui tutti si danno del tu, urlano e cercano di togliersi la parola. Con teletribuni più propensi al sermone o a soffiare sul fuoco della polemica, che fa sempre tanta «audience».

Lasciando ai ricordi in bianco e nero le immagini di Aldo Moro, sempre a disagio di fronte alle telecamere, di Giulio Andreotti, serafico e imperturbabile, e di Pietro Nenni, con la zucca pelata e gli occhialini tondi da professore universitario un po' distratto, appena distolto dai suoi studi.

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