Quant'è bello il primo Toni Santagata, il secondo è più bello ancora. Oggi il rivoluzionario del sound italiano ha 85 anni, ma a vederlo così in forma le cifre potrebbero essere invertite: 58.
Wikipedia, l'enciclopedia che tutto vede e a tutto provvede, gli appiccica l'etichetta di «cantautore, cabarettista e attore»; roba vera, ma limitativa: come definire Diego Maradona semplicemente «calciatore, riccioluto e argentino». Se vi azzardate a restringerlo nella stanza angusta del «Genere Folk», Toni butta giù le pareti a spallate: «Macché folk... Ho composto, oltre a mille altre cose, ben sei opere musicali moderne con tanto di recital nell'aula Paolo VI in Vaticano». Numeri da star, quelli del maestro Antonio Morese (il suo vero nome): 22 milioni di dischi venduti e 6.700 spettacoli. «Memorabili i 20 minuti di applausi nel mitico Madison Square Garden di New York», ricorda Santagata rinverdendo una vecchia cartolina del «periodo americano». Toni, inventore di uno stile che in 60 anni (sessanta!) di carriera ha shakerato l'umorismo del cabaret con l'originalità di rime esilaranti. Istrione e one man show, un visionario predisposto a giocare d'anticipo anche su temi seri e di attualità. Se poi la pizzica salentina è diventato un ballo global, il merito è anche del «cocktail Santagata», da gustare sorso a sorso, anzi strofa a strofa.
Per averne la riprova, basta ascoltare quel capolavoro imitato ovunque, dal ritornello inconfondibile, che fa: «Quant'è bell' lu primm'ammore» (rassicurante prima parte, subito smentita dall'ammiccante parte seconda: «lu secondo è chiù bell' ancòr»). Motivetto mille volte remixato, dalle sagre di paese alle serate in discoteca, dove ogni chef aggiunge un ingrediente al piatto forte. Ma il cuoco-doc resta sempre lui: Toni, nato a Sant'Agata, il paese pugliese in provincia di Foggia che ne ha ispirato il nome di battaglia, ma che oggi vive di luce riflessa proprio per aver dato i natali all'«Aznavour italiano», come ai tempi d'oro era conosciuto in Francia, dove tra i suoi fan c'era l'intera famiglia Mitterand con testa il presidente e il figlio ministro della Cultura.
Ma sorpresi a canticchiare «Quant'è bell' lu primm'amore», furono anche insospettabili ammiratori nostrani del calibro di Sandro Pertini, Renato Guttuso (che alla fine di un concerto gli donò un disegno), Pier Paolo Pasolini ed Eugenio Montale.
Un'intera nazione stregata dallo stornello «scandalo» che fu subito censurato da quella stessa Rai che già proibiva alle gemelle Kessler la calzamaglia «color carne».
Ma, dopo decenni di timori bacchettoni, la «Televisione di Stato» riabilitò il famigerato brano, pregando Santagata di presentarla a Canzonissima pur con qualche piccola modifica legata al numero di «corna» contenute nel testo originale.
Una trama tragicomica, specchio di un'epoca che dal secondo dopoguerra arriva ad oggi.
Cominciamo da quel fatidico 1974 quando la Rai, dopo aver censurato per un decennio la sua canzone-simbolo composta nel 1964, la pregò di partecipare a Canzonissima.
«Un pezzo da novanta della Rai mi spiegò che in quella edizione di Canzonissima, presentata da Raffaella Carrà, avrebbero voluto puntare sulla valorizzazione della musica regionale».
Lei accettò subito.
«Al contrario. Rifiutai, rimanendo un po' offeso».
Addirittura. E perché?
«Primo perché non sono mai stato un cantautore regionale, ma un interprete che ha usato il dialetto unicamente per valorizzarlo in una chiave nazionale e internazionale. Secondo perché all'epoca ero già famoso e pieno di impegni».
Cosa le fece cambiare idea?
«Decisi di consumare una mia piccola vendetta».
«Vendetta»?
«Dissi: Parteciperò solo a una condizione: cantare la canzone che mi avete sempre censurato».
Ossia la famigerata Quant'è bell' lu primm'amore».
«Proprio lei».
E il «pezzo grosso» della Rai che rispose?
«Ma tu vuoi farmi licenziare? Quello è un testo scandaloso».
Quindi?
«Replicai: Allora non se ne fa niente. Lo salutai e uscii dalla stanza. Ma mentre stavo per entrare nell'ascensore».
Cosa accadde?
«Sentii una mano sulla spalla. Era il super direttore. Che si arrendeva. Mi disse: Ok, hai vinto tu. Ma devi farmi un piacere».
Quale «piacere»?
«Nella canzone c'era quattro volte la parola corna. Lui mi chiese di ridurle a due per non urtare troppo la serenità familiare dei telespettatori».
Accettò?
«Sì, anche se bluffai sul numero delle corna. Erano di più».
I telespettatori gradirono o rimasero choccati?
«Altroché se gradirono. Vinsi Canzonissima con 1.400.000 cartoline di preferenza spedite da casa. Un trionfo».
Ma, «corna» a parte, cosa c'era in quella poesia da creare tanto imbarazzo da parte di «tutori della morale pubblica»?
«Per la prima volta, in un'Italia profondamente cattolica e tradizionalista, una canzone rompeva il tabù di ruoli sociali cristallizzati da generazioni».
Cioè?
«Si adombrava un adulterio, si descriveva la figura grottesca di un marito (di nome Bracalone) succube della moglie e privato dell'autorità del pater familias. Insomma, con largo anticipo sui tempi moderni, mettevo in discussione dogmi secolari».
Ma «Bracalone» è un marito immaginario o un personaggio reale?
«In realtà era il padre di un mio compagno di scuola. Non si chiamava così ma le vicende raccontate nella canzone sono vere. E di alcune sono anche stato testimone».
Come nel caso del «mazziatone» subìto dal povero Bracalone ad opera della moglie?
«Bracalone, quando incrociava la moglie, cercava sempre di porsi in una posizione strategica: riservandosi una via di fuga. Maria, la signora Bracalone, aveva infatti il vizietto di alzare le mani».
Inoltre, i piatti li faceva sempre lavare al coniuge.
«Ma Bracalone, per non perdere la status di uomo a parole e fatti, pretendeva che l'acqua per sciacquare i piatti fosse calda...».
Nelle sue canzoni le interazioni coniugali seguono spesso dinamiche spiazzanti.
«Sono sempre stato aperto al nuovo, opponendomi a ogni tipo di stereotipo e pregiudizio. Vengo da una famiglia di vecchio stampo e, come si dice, dai sani principi. Genitori che si sono amati dal primo all'ultimo giorno. Un ottimo esempio di solidità matrimoniale. Anch'io ho seguito le loro orme, con una moglie meravigliosa, Giovanna, con cui condivido da sempre gioie e dolori».
Mamma e papà hanno aiutato il «piccolo Antonio» a diventare il «grande Toni Santagata»?
«Speravano, come tutti i genitori, che il figlio diventasse un serio professionista. In un Sud devastato da distruzione e povertà post-bellica ambire a diventare artista era pura utopia».
Eppure Padre Pio le aveva predetto che il suo sogno si sarebbe realizzato.
«Giusto».
Racconti come andò.
«Ero giovanissimo. Ma avevo dentro il fuoco inesauribile della passione. Decisi di andare a trovare quel frate miracoloso. Chiesi di incontrarlo e lui mi accolse».
E cosa le disse Padre Pio?
«Uaglio', tu tien la coccia tosta (Ragazzo, tu sei testardo), diventerai un bravo cantante. Ma, mi raccomando, studia».
Ma lei, ai libri, preferiva gli spartiti?
«Non ho mai rinunciato alle soddisfazioni scolastiche, comprendendo l'importanza della cultura. Ero il primo della classe. Mi chiamavano il direttore. Ho fatto pure l'università a Napoli».
Sgobbone?
«Mai. Un ragazzo sveglio. Davanti casa, nel 45, si esibiva un'orchestrina americana. Per me era attrazione irresistibile fatta di ritmi e sound affascinanti. Di lì cominciai a muovere i primi piccoli passi, che diventarono sempre grandi. Fino all'approdo a Roma».
La Capitale. La consacrazione.
«Il successo giunse travolgente. A Roma venivano inaugurati locali alla moda solo per ospitare i miei concerti. E la fama aumentava anche fuori dall'Italia».
Sul suo sito ufficiale c'è una videogallery dedicata ai gol del «bomber Santagata» realizzati durante tante partite di beneficenza.
«Sono tra i fondatori della Nazionale Artisti e l'ideatore del Derby del cuore. Il calcio l'ho sempre amato. Anche se recentemente in una partita un colpo di testa mi ha causato un grave problema di salute che però, con l'aiuto del mio amico San Pio, ho risolto senza conseguenze.
Gli amanti del football ricordano le sue sigle dei programmi Golflash e Domenica Sprint.
«Nel cuore dei tifosi resta Squadra grande squadra mia, che divenne l'inno dell'Italia campione del mondo 1982».
Milano, altra tappa fondamentale per la scatala .
«Al Derby dovevo fare una sola serata. Dopo il successo del primo recital, ne feci 250 di seguito».
Difficile rimanere umili quando la folla ti applaude.
«Non mi sono mai montato la testa. Neppure quando Charles Aznavour mi ospitò a un suo concerto e, alla fine, mi abbracciò solo per dimostrare al pubblico di essere mio amico».
Che pensò in quel momento?
«Avevo l'orgoglio di rappresentare, al meglio, l'Italia intera e, con essa, la mia regione, la Puglia, e tutto il Sud».
Un Sud sempre assetato di riscatto. Sociale, economico, culturale.
«Ricordo, nell'immediato dopoguerra, i miei compagni di scuola che venivano in classe scalzi. La povertà era assoluta. Il meridione era isolato dal Nord per la mancanza di collegamenti e trasporti».
C'era un intero Paese da ricostruire.
«I genitori mi ripetevano: Figlio mio, impara bene a parlare l'Italiano. Altrimenti rimarrai sempre emarginato».
Ed emarginazione faceva rima con emigrazione.
«Emigrante è una parola che ho sempre amato. Io stesso sono stato un emigrante e quando vedevo all'estero tanti connazionali era difficile non commuoversi. Aver regalato loro un attimo di gioia è stato emozionante. Il vero compito di un artista è donare al pubblico una parentesi di felicità. E ciò va fatto anche quando il nostro animo è amareggiato da vicende personali».
In questa prima estate post-Covid le regioni meridionali, con in testa la Puglia, sono tornate a essere meta dei turisti stranieri.
«Ed è merito anche di noi emigranti che abbiamo saputo esportare oltreconfine il meglio delle qualità nazionali. Ci siamo fatti apprezzare umanamente, poi la bellezza del territorio ha fatto il resto».
La soddisfazione più grande?
«Avere esaltato il dialetto pugliese in un contesto di qualità artistica ai massimi livelli; con me hanno suonato infatti i più grandi musicisti. Senza contare la gioia di essere stato un punto di riferimento per una generazione di colleghi di valore assoluto».
Il dolore più incancellabile?
«Aver perso mio figlio Francesco Saverio, portato via da una malattia improvvisa. Sono orgoglioso di lui, come lui era orgoglioso di me. L'amore ci terrà uniti. Per sempre».
C'è una fotografia che l'aiuta a scacciare la tristezza?
«Quella col mio nipotino Lorenzo che, dopo aver curato un gabbiano ferito, lo fa volare via. Libero, sul mare che brilla».
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