Le cronache di queste settimane sono piene di temi e di istanze tratti del più classico repertorio leghista e utilizzati, sviluppati e rivisitati da altri: c’è insomma una corsa a saccheggiare gli armadi del Carroccio. In tanti si occupano dell’invasione islamica, dei problemi della sicurezza, dell’eccesso di immigrazione, di gabbie salariali, di dialetti e di culture locali; si sta generalizzando la critica alle trombonate risorgimentali, si chiede la riforma della giustizia, si raccontano gli sprechi dello statalismo, si sottolineano i costi del Meridione parassitario eccetera. Ultima in ordine di tempo arriva la crociata contro il canone Rai che è stato uno dei cavalli di battaglia della «Lega di lotta» degli anni passati. Insomma si ha la generale impressione che i temi della vecchia Lega «contro tutti» stiano affascinando un sacco di gente e non solo a destra.
In realtà però si tratta nella grande maggioranza dei casi di operazioni di facciata, di prese di posizione che sollevano consensi e indignazioni ma che finiscono lì: provvedimenti concreti non se ne vedono e anche sulla necessità di riforme vere tutti si dichiarano d’accordo ma tutti o quasi traccheggiano. Anzi, compaiono qua e là inquietanti segni di reazione: nuovi progetti di finanziamenti al Sud, scempiaggini sulla cittadinanza facile, attacchi alle autonomie delle Regioni a statuto speciale, affioranti tentazioni a inasprire l’oppressione fiscale.
Guardiamo il canone Rai e la sua richiesta di soppressione a furor di popolo. Cosa ci vorrebbe per una maggioranza parlamentare solida e per un governo che gode di livelli di consenso mai visti prima per approvare di corsa una leggina di abolizione? Cosa ci vorrebbe a iniziare un serio processo di privatizzazione, oltre a tutto coerente con i programmi liberali della coalizione di centrodestra e con i risultati di un referendum vergognosamente dimenticato? In più, nel governo c’è un partito che aveva fatto dell’abolizione del canone una delle sue bandiere, che per anni ha invitato i suoi militanti a non pagarlo. Certo oggi suona male che un suo ministro ammetta algidamente di pagarlo, dopo avere mandato migliaia di militanti allo sbaraglio delle ingiunzioni, dei sequestri e delle sanzioni. E poco ne migliora l’immagine che il suo rappresentante nella Commissione di Vigilanza presenti oggi con acrobatico tempismo un ordine del giorno per l’abolizione del canone sull’onda della campagna scatenata dal Giornale.
Anche questo però rientra nello strano atteggiamento della Lega che tende a defilarsi, a starsene in disparte proprio su molti dei temi che essa stessa ha avuto il merito di portare alla ribalta. C’è quasi un disconoscimento di paternità in tutto questo lasciare ad altri la gestione (anche solo di facciata) di problemi che sono invece stati alla base della nascita e del successo del movimento.
Perché Bossi e suoi sembrano voler rinunciare a godere finalmente dei frutti di vent’anni di battaglie e contentarsi dei tiepidi e fugaci consensi che porta l’opposizione all’immigrazione? Qualche malizioso sostiene che siano molto più attenti ai posti e agli equilibri di potere e di governo, e che temano gli scossoni e perciò viaggino con il freno a mano tirato. Altri potrebbero insinuare che in via Bellerio si sia molto più sensibili alle alchimie interne e che i capataz si muovano sempre più solo in funzione della preservazione della loro posizione personale.
Altri ancora potrebbero sibilare che con l’allontanamento di Miglio e dei suoi e - più in generale - degli autonomisti doc, la Lega sia in crisi di astinenza di idee.
Si tratta di interpretazioni che contengono tutte uno scampolo di verità ma che non bastano per spiegare l’attuale atteggiamento «prudente», quasi democristiano, del partito. Sicuramente c’è dell’altro. Se qualcosa frulla nella testa di Bossi lo vedremo nei prossimi mesi.
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