Tutta la forza dionisiaca e senza confini che animava il giovane Friedrich Nietzsche

La raccolta dei primi scritti del filosofo illumina un percorso spirituale

Tutta la forza dionisiaca e senza confini che animava il giovane Friedrich Nietzsche
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Nell'agosto del 1881, mentre errava tra i boschi di Silvaplana, Friedrich Nietzsche viene folgorato dall'idea dell'eterno ritorno: «L'istante in cui nacque in me l'idea del ritorno è immortale. Per quell'istante io sopporto il ritorno!». Questa fatale intuizione, al contempo terribile e meravigliosa, suggerisce che per vivere un istante immortale e assoluto si possa sopportare perfino la realtà, e riassume la grandezza del filosofo che scriveva a Cosima Wagner: «è un pregiudizio che io sia un uomo!».

Questa grandezza è già evidente in due scritti giovanili, La visione del mondo dionisiaca e Su verità e menzogna, pubblicati da Bompiani (Tutto sarà allora Dioniso, pagg 108, euro 10). Nella Visione del mondo dionisiaco, Nietzsche anticipa le intuizioni de La nascita della tragedia: parla della saggezza di Apollo, e di Dioniso, il dio dolcissimo e terribile che arriva dall'Asia e sconvolge la Grecia. Descrive l'ebbrezza dionisiaca, il suo vortice irresistibile, l'eccitazione narcotica e lo scatenamento degli impulsi; parla dei limiti, «che per poter essere fermi devono essere riconoscibili», e che portano all'ammonimento apollineo gnòhi seautòn («conosci te stesso»).

Secondo Nietzsche, però, è l'eccesso a svelarsi come verità, è «il fascino demonico di un sentimento straripante»: più o meno, il contrario del medèn ágan («nulla di troppo»), l'altro monito apollineo per eccellenza, che campeggiava sul tempio del dio a Delfi. L'estasi dionisiaca abbatte ogni costrizione, «lo scintillio olimpico impallidisce davanti alla sapienza del Sileno», e il ritorno alla realtà e alla coscienza dà la nausea: ed è curioso - e misterioso che sia proprio Euripide, che nella Nascita della tragedia sarebbe stato definito il distruttore della tragedia, a scrivere, nelle Baccanti, quello che si avvicina forse di più alle idee di Nieztsche: «Stare nei limiti dell'uomo è una vita senza dolore. Non voglio una sapienza sottile. La mia gioia è cercare altri beni, grandi e chiari».

Il secondo testo, Su verità e menzogna, è, invece, «un pro memoria». E descrive l'uomo, «costantemente ingannato», e il cui «intelletto dispiega le principali forze nella finzione»: perché «le verità sono illusioni», ma l'uomo «ha un'invincibile inclinazione a farsi ingannare ed è come incantato di fronte alla felicità». Per Nietzsche, che non a caso riteneva superficiale, in confronto a lui, «il fondatore del cristianesimo», il grande uomo ha l'esigenza dell'immortalità, ma è rallentato, frenato, ostacolato dai «piccoli cervelli di miseri esseri umani fugacemente viventi».

Perché «l'uomo morale guarda ogni scomparire e tramontare con insoddisfazione, con la meraviglia di esperire qualcosa di impossibile», e con la nostalgia di quell'«istante di perfezione cosmica».

L'«attimo di suprema perfezione», infatti, scompare senza lasciare tracce o eredi, e questo «offende nella maniera più forte l'uomo morale»: in fin dei conti, non sarà per illudersi di rintracciare almeno il ricordo di quell'attimo che Marcel Proust, cinquant'anni più tardi, avrebbe scritto Il Tempo Ritrovato?

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