di George Orwell
A Henry Miller
26-27 agosto 1936
Caro Miller, la ringrazio moltissimo per la sua lettera. Allo stesso tempo mi fa sentire piuttosto in colpa, perché avevo intenzione di scriverle da settimane, e continuavo a rimandare. Dunque, Primavera nera è arrivato sano e salvo, e ne ho trovata veramente bella una parte, soprattutto i capitoli iniziali, ma sono convinto, e lo scriverò nella recensione, che un libro come Tropico del Cancro, trattando di eventi che sono successi o che potrebbero essere successi nel mondo a tre dimensioni, sia più nelle sue corde.
Tropico del Cancro mi è piaciuto per tre motivi in particolare: prima di tutto per il ritmo inconfondibile del suo inglese; in secondo luogo perché lei ha parlato di episodi comuni a tutti ma che nessuno aveva mai raccontato (ad esempio quando uno deve fare l'amore con una ragazza ma per tutto il tempo muore dalla voglia di pisciare); infine per il modo in cui si addentra in una specie di fantasticheria riuscendo a eludere, senza mai esagerare, le leggi che regolano il mondo. Lo stesso fa anche in Primavera nera, ad esempio mi piace molto la riflessione che prende avvio nell'orinatoio pubblico alle pagine 60-64, ma credo che in quel caso lei si sia spinto troppo lontano dal mondo ordinario, fino a sconfinare in una specie di universo di Topolino dove la gente non è tenuta a rispettare le leggi dello spazio-tempo. Potrei sbagliarmi, e forse ho frainteso il suo intento, ma ho la tendenza a rimanere con i piedi per terra e a sentirmi a disagio quando mi ritrovo troppo distante dal mondo reale, dove l'erba è verde, le pietre sono dure ecc...
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27.8.36
Sono contento che sia riuscito a procurarsi una copia di Senza un soldo a Parigi e a Londra. Non ne ho più a disposizione ed è fuori catalogo; stavo per mandarle un esemplare dell'edizione francese (immagino lei abbia visto quella inglese) quando ho ricevuto la sua lettera. Sì, è stato pubblicato anche in America, ma non ha venduto molto. Non so che recensioni abbia ricevuto in Francia, ne ho viste solo un paio: forse perché chi si occupa di mandarmi i ritagli di giornale non le ha reperite oppure perché non mi sono adoperato per far mandare delle copie, corredate di lettere lusinghiere, ai migliori critici, come mi dicono si dovrebbe fare in Francia. Anche altre mie opere sono state pubblicate in America. Il mio secondo libro, Giorni in Birmania, è uscito prima lì che in Inghilterra, perché la casa editrice aveva paura che l'India Office potesse prendere provvedimenti per vietarlo. Un anno dopo, il mio editore inglese ne ha pubblicata una versione riveduta, con alcuni nomi e fatti leggermente modificati, quindi l'edizione giusta rimane quella americana. È l'unico libro di cui sono soddisfatto, non è un granché come romanzo, ma le descrizioni dei paesaggi, cioè quelle parti che il lettore medio generalmente salta, non sono male.
Il mio terzo libro, La figlia del reverendo, uscito in Inghilterra più o meno un anno fa, è stato pubblicato in America la settimana scorsa. Il libro è una mezza scemenza, ma ho fatto degli esperimenti che mi sono tornati utili più avanti. Immagino che il mio ultimo romanzo, Fiorirà l'aspidistria, non uscirà in America, perché è una storia con un'ambientazione troppo inglese e il pubblico americano sta diventando piuttosto insofferente verso quella che credo venga definita «roba da inglesine». Già ai tempi in cui lavoravo in libreria avevo notato la difficoltà di vendere libri americani in Inghilterra. Le due lingue si stanno separando sempre di più. Vedo dalla quarta di copertina di Primavera nera che ha ricevuto un'ottima recensione da Eliot & Co, e che in quella compagnia sono citato anche io. È un passo avanti per me. È la prima volta che compaio sul libro di qualcun altro. Dunque nessun dubbio: presto diventerò Sir Eric Blair. Mi scriva se o quando ne ha voglia.
Suo, Eric A. Blair
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A Noel Willmett
18 maggio 1944
Gentile signor Willmett, molte grazie per la sua lettera. Mi domanda se il totalitarismo, il culto della personalità ecc. stiano davvero guadagnando terreno ovunque, e cita il caso di questo Paese e degli Stati Uniti dove apparentemente ciò non accade. Devo ammettere di credere, o di temere che, considerando il mondo nel suo complesso, tutte queste cose si stiano sviluppando. Non c'è dubbio che Hitler scomparirà a breve, ma solo a spese del rafforzamento di a) Stalin, b) dei milionari angloamericani e c) di tutti quei piccoli führer domestici tipo de Gaulle. Ovunque i movimenti nazionali, anche quelli nati in risposta alla dominazione tedesca, sembrano assumere forme antidemocratiche e raggrupparsi intorno a figure di dittatori superomistici (Hitler, Stalin, Salazar, Franco, Gandhi, de Valera ne sono tutti esempi) e adottare la teoria secondo cui il fine giustifica i mezzi. Ovunque il mondo sembra muoversi nella direzione di un'economia centralizzata che, per quanto possa risultare «efficace» da un punto di vista economico, non è organizzata secondo principi democratici, e aspira anzi a istituire un sistema di caste. Da questo derivano gli orrori di un nazionalismo di pancia e la tendenza a dubitare della verità oggettiva, perché tutti i fatti devono sottostare alle parole e alle profezie di un qualche infallibile dittatore. In un certo senso, la Storia ha già smesso di esistere.
Non c'è ad esempio una narrazione universalmente accettata della Storia di questi giorni, e le scienze esatte saranno in pericolo non appena le necessità militari smetteranno di tenere le persone al passo coi tempi. Hitler può continuare a dire che sono stati gli ebrei ad aver cominciato la guerra e, se sopravvivesse, questa diventerebbe la versione ufficiale. Non può certo dire che due più due fa cinque, perché per gli scopi, mettiamo, della balistica, deve fare quattro. Ma nel mondo che con timore vedo arrivare, un mondo dominato da due o tre superpotenze che non riescono a conquistarsi l'un l'altra, due più due potrebbe fare cinque, qualora il dittatore lo volesse. Questa, da quel che ho capito, è la direzione in cui ci stiamo muovendo, sebbene, ovviamente, il processo sia reversibile.
Mi chiede anche come possa io essere a favore della guerra e pensare al contempo che il mondo stia scivolando verso il fascismo. È una scelta tra due mali, immagino che ogni guerra lo sia. Conosco abbastanza bene l'imperialismo britannico per detestarlo, ma lo preferirei, come male minore, a quello giapponese o al nazismo. Allo stesso modo appoggerei l'Urss contro la Germania, perché ritengo che l'Urss non possa sottrarsi del tutto al proprio passato, e che poiché conserva vive le idee alla base della rivoluzione sia un fenomeno molto più auspicabile rispetto alla Germania nazista. Penso, e l'ho sempre pensato sin dall'inizio della guerra, a partire più o meno dal 1936, che la nostra causa sia migliore, ma abbiamo l'obbligo di continuare a migliorarla, il che non può accadere senza una critica costante.
Cordiali saluti,
Geo. Orwell
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A George Woodcock
4 gennaio 1948
C aro George, era da un po' che avevo intenzione di scriverti per dirti che alla fine non potrò scendere a Londra. Come temevo, sono gravemente malato: tubercolosi al polmone sinistro. Sono in ospedale soltanto da due settimane, ma prima di venire qui ho passato due mesi allettato a casa.
Il nodo centrale con cui bisogna fare i conti è la solita tesi, avanzata di continuo dai sostenitori di una politica repressiva, secondo cui «non si può permettere che la democrazia venga usata per rovesciare la democrazia: non si può concedere libertà a chi vuole usarla per eliminare la libertà». Naturalmente questo è vero, e lo scopo tanto dei fascisti quanto dei comunisti è usare la democrazia per soffocarla. Ma tirando le fila di questo discorso si arriverebbe a dire che la libertà politica e intellettuale non può esistere a nessuna condizione.
Di conseguenza è evidente il bisogno di distinguere tra una minaccia reale alla democrazia e una solamente teorica: nessuno dovrebbe essere perseguito per aver espresso le proprie opinioni, per quanto antisociali, e nessuna organizzazione politica dovrebbe essere soppressa, a meno che non si manifesti una sostanziale minaccia alla stabilità dello Stato. Questo è il punto principale che dovrei sottolineare. Ovviamente ce ne sono molti altri.Tuo, George
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