Le urne dal sapore di spot

Le primarie del centrosinistra sono state più un'operazione di mobilitazione e propaganda che un'iniziativa di pratica democratica. Le sfide per la leadership di un partito o come nell'anomalo caso italiano per uno schieramento, si fanno su profili di governo alternativi, non su opzioni essenzialmente personalistiche. La mobilitazione e l'efficacia della propaganda espresse, però, in questa occasione sono di portata imprevista, in qualche modo eccezionale.
La spina dorsale del centrosinistra è «l'organizzazione» dei ds, erede della poderosa macchina del Pci, rimessa a lucido dallo sgobbone Piero Fassino. Però quattro milioni di persone non vanno a votare solo perché «organizzate». Solo tre anni fa la Cgil portò in piazza settecentomila persone (tre milioni dichiarate): anche in quel caso l'operazione non andò a buon fine solo per la capacità di riempire i pullman. Allora Sergio Cofferati riuscì a convincere gran parte dei lavoratori che Confindustria e governo volevano piena libertà di licenziamento. Fu questa paura che consentì quelle piazze strabordanti di folla. Non solo la meticolosità nell'organizzare la base.
E le grandi mobilitazioni, se non si riflette sulle cause che le consentono, producono a loro volta seri processi politici: non per nulla pochi mesi dopo le adunate cofferatiane, Confindustria cambiò linea.
Nel successo delle primarie, che stupisce ancora di più per la goffaggine politica di Romano Prodi e Fassino, vanno letti i sentimenti di una fetta ampia del Paese. In gran parte collocata da tempo all'opposizione, ma motivata in modo inedito.
Certo, pesa anche quel comune sentire di società europee che si sentono in un'impasse e reagiscono scagliandosi contro le classi dirigenti: così il segno dei voti francese e olandese sull'eurocostituzione. Anche da questo sentimento di sfiducia deriva l'idea che l'Italia sarebbe alla catastrofe, e il governo non avrebbe fatto niente se non occuparsi degli interessi del premier. I controragionamenti sul carattere articolato della nostra società con settori in difficoltà ma senza nessun crollo in vista. L'appello a considerare concretamente i provvedimenti del governo (riduzione delle tasse, riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, avvio di un programma di opere pubbliche, riforma della scuola e così via). La richiesta di sforzarsi di capire come lo scandalo italiano originario non siano le leggi ad personam ma i tribunali ad personam. Tutti questi inviti alla riflessione in tanti casi passano come l'acqua sul marmo. Qualche responsabilità, di fatto, l’ha anche il ceto politico del centrodestra, spesso dotato di buone capacità di governo ma in molti casi nuovo nell'arte della costruzione del consenso. Vi è, poi, la difficoltà a interloquire con quelle élite, anche di orientamento moderato-conservatore, che più contano nella comunicazione. D'altra parte quando una propaganda è efficace e quella che l'avversa non lo è, non ci si può limitare a urlare più forte: si devono compiere correzioni nei comportamenti politici per acquisire nuova capacità di comunicazione e per attenuare l'eccitazione del blocco avversario, che magari alla fine non paga elettoralmente, ma può produrre gravi fratture nella vita del Paese.


Naturalmente le sfide di tipo nuovo non possono fondarsi sull'accettazione del punto di vista di chi avversa il governo, cioè sulla convinzione che i cinque anni dell'esecutivo berlusconiano siano stati fallimentari: fare questa scelta non significa attrezzarsi per iniziative originali, bensì arrendersi o passare dall'altra parte. Scelte legittime in un regime democratico ma che vanno chiamate con il loro nome.

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