Due anni fa lo davano per spacciato. Il Dalai Lama, invece, attendeva soltanto una nuova reincarnazione. Ora è arrivata. A recapitargliela su mandato di quel Dio della Compassione di cui è manifestazione terrena ci sta pensando Barack Obama. Il suo «no» alla Cina, la sua decisione di incontrare il padre spirituale della patria tibetana anche a costo di inasprire le relazioni con Pechino sta regalando nuova linfa vitale a un leader che due anni fa - dopo la rivolta di Lhasa - sembrava aver perso il sostegno della propria gente. Invece eccolo nuovamente sugli scudi, di nuovo risorto, di nuovo pronto a rappresentare una nazione e una fede in esilio. La data della sua resurrezione è già fissata. Lincontro avverrà il 16 febbraio e si svolgerà durante il suo prossimo viaggio in terra dAmerica. Ad annunciare limminente rinascita ci pensa la Casa Bianca rendendo pubblico un impegno assunto lo scorso novembre quando il presidente americano approfittò della visita in Cina per comunicare al suo omologo Hu Jintao la volontà darrivare a quellappuntamento.
Intendiamoci quella di Obama non è unesibizione di grande audacia. Tre anni fa il suo predecessore George W. Bush aveva già aperto le porte della Casa Bianca a Sua santità. Obama aveva invece rinviato un appuntamento già fissato proprio per timore di compromettere la visita dello scorso autunno a Pechino. A questo punto Obama non poteva però tirarsi indietro. Rinviare nuovamente lincontro con Mister Tibet mentre a Pechino i dissidenti finiscono uno dopo laltro in prigione, mentre Google lotta per sottrarsi al controllo della censura e gli hacker cinesi ingaggiano una vera guerra cibernetica con lOccidente sarebbe stato troppo. Resta da vedere come reagirà la Cina. Zhu Weiqun, responsabile del Partito comunista per le etnie e gli affari religiosi annuncia lintenzione del governo di opporsi all incontro ribadendo il vecchio ritornello della questione interna. E i portavoce del ministero degli Esteri di Pechino ricordano minacciosamente che la Cina «si oppone a qualsiasi contatto tra il leader degli Stati Uniti e il Dalai Lama sotto qualsivoglia pretesto e qualsivoglia forma».
Ma cosa può fare concretamente Pechino per punire gli Stati Uniti? In passato tutte le rimostranze sono rimaste lettera morta. Stavolta le autorità cinesi potrebbero cercare di rendere più difficile la ripresa delleconomia statunitense ostacolando gli scambi tra i due Paesi, ma la mossa rischierebbe di rivelarsi una sorta di harakiri visto che i primi a beneficiare dellinterscambio sono i prodotti e lindustria di Pechino. E Obama che lo sa ne approfitta per promettere «maggiore severità» proprio nel settore di quegli accordi sugli interscambi commerciali spesso ignorati da Pechino. «Il nostro approccio - spiega il presidente - è di una maggiore severità nei confronti delle regole per questo continueremo a premere perché la Cina e altri Paesi aprano i loro mercati ai nostri beni».
Volente o nolente il colosso industrial-comunista deve rassegnarsi ad assistere allennesima resurrezione di Sua santità. Dal punto di vista cinese è lennesimo beffa del destino. La rivolta di Lhasa del marzo 2008 sembrava aver compromesso lautorità spirituale e temporale del Dalai Lama. La discesa in piazza e la partecipazione agli scontri di centinaia di monaci educati ai precetti della non violenza e del dialogo venivano interpretati come il fallimento della sua predicazione, la manifestazione chiara ed evidente della dissonanza tra lui e la sua gente. Il primo a capirlo, il primo a parlare di possibili dimissioni fu lo stesso Dalai Lama. Il fantasma di quellabbandono bastò a convincere anche le fazioni più estremiste della diaspora tibetana a rivedere le proprie posizioni. Durante uno storico incontro, i capi dei vari gruppi in esilio compresero che rinunciare a quel saio arancione rispettato da tutto il pianeta equivaleva a regalare a Pechino una vittoria mai conquistata in mezzo secolo di occupazione. La rinascita del Dalai Lama iniziò quel giorno. Da allora ha ripreso la sua paziente e instancabile lotta al gigante e ha rilanciato la politica del dialogo rimandando i suoi emissari a Pechino, senza venir meno ai propri principi, senza piegarsi alle accuse del nemico.
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