Usa ed Europa, ripartire con originalità

A parole ne sono tutti convinti. E l’incontro molto amichevole tra il cancelliere tedesco Angela Merkel e George Bush lo dimostra: Stati Uniti ed Europa devono tornare a muoversi a braccetto, come si conviene tra buoni alleati. Ma al di là delle buone intenzioni, l’impressione è che la frattura provocata dai dissidi ai tempi dell’invasione dell’Irak sia più profonda del previsto e, soprattutto, che manchino analisi capaci di superare un dibattito ormai stantio.
In questo contesto merita attenzione il bel saggio di Vittorio Emanuele Parsi L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq (pagg. 299, Università Bocconi Editore). E non solo perché è stato pubblicato prima negli Usa che nel nostro Paese; fatto alquanto raro per uno studioso italiano.
Parsi, docente di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano ed editorialista del quotidiano Avvenire, non fa mistero di essere un atlantista convinto, ma senza rinunciare a un’analisi oggettiva della realtà, a tratti anche molto critica. Nei confronti dei falchi dell’amministrazione Bush? Senza dubbio e legittimamente, considerati i danni che una guerra condotta con arroganza e superficialità ha inferto innanzitutto proprio agli americani. Ma Parsi non è indulgente nemmeno con quella parte di Europa che aveva avuto ragione nel diffidare della guerra in Irak, ma che poi si è dimostrata incapace di gestire le conseguenze di quel drammatico strappo. A che cosa è servita l’opposizione di Francia e di Germania? A costruire una nuova identità politica? A incrementare il prestigio mondiale dell’Europa? Macché. All’indomani della cacciata di Saddam, Chirac e l’allora cancelliere Schröder dimostrarono la loro insipienza strategica: dopo quel no non restò che il vuoto.
E oggi bisogna ripartire. In un mondo sempre più asimmetrico e imprevedibile, europei e statunitensi si accorgono che il rapporto di alleanza, cementato per oltre mezzo secolo nell’opposizione all’imperialismo sovietico, resta più che mai necessario, a condizione di ricreare un’armonia d’intenti. Già, ma come?
Parsi, saggiamente, non si azzarda a suggerire soluzioni politiche, preferendo affontare i problemi in una luce nuova. Ad esempio ancora oggi i politologi si chiedono perché sia stato possibile convertire alla democrazia la Germania nazista e il Giappone imperiale, ma non l’Irak di Saddam. Di solito vengono avanzate spiegazioni culturali, sociologiche, religiose, spesso pertinenti, ma non esaustive. Secondo Parsi la trasformazione di una dittatura in un sistema libero è possibile solo quando al momento della sconfitta militare viene estirpata l’ideologia del regime uscente, senza che ne esista una sostitutiva. Nel ’45 i tedeschi non avevano altro credo a cui aggrapparsi, ma a Bagdad non è andata così. «Una nuova ideologia di riserva, ancora più ostile all’Occidente e ai suoi valori del baathismo, esisteva già e aveva un carattere transnazionale. Si tratta del fondamentalismo islamico, che da questa guerra ha attinto linfa vitale».
Ecco dove ha sbagliato l’America: il suo è stato un peccato di superbia intellettuale nei confronti della società irachena, che si è riverberato sul Medio Oriente e sugli alleati.

Parsi ritiene che gli Usa subiscano «la tentazione di sopravvalutare l’uso della forza», ma al contempo biasima un’Europa che «tende pericolosamente a sottovalutarla». E da qui occorre ricominciare, riequilibrando gli eccessi. Anche il buon senso, talvolta, è inevitabile.

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