Svicolando fra caterve di libri castranti per la gelida trivialità sessuale ostentata da decine di giovani scrittori e scrittrici a caccia di successo, e di thrilling e noir comicamente «orrorosi» e in realtà più tranquillizzanti di quindici gocce di valium, che trovano ospitalità e diseducative abbreviazioni di percorso in contenitori editoriali gestiti da editor inesperti o troppo furbi, mi sono alfine imbattuto in due libri veri: La morte di Marx di Sebastiano Vassalli (Einaudi, pagg. 186, euro 16,50) e Non ci sono santi di Gabriele Romagnoli (Mondadori, pagg. 210, euro 15). Gli autori, due «apocalittici» (come li definirebbe Umberto Eco): il primo incline a categorie etico-sociali più che alla costruzione di personaggi di carne e sangue, il secondo, pirotecnico nello stile e nellaffabulazione.
Lasciando ad altri critici limpegno di parlarne diffusamente, è opportuno qui accomunarli, pur nella loro diversità, in una riflessione sulla loro «ideologia», o, meglio, sulla loro esperienza umana, trasfigurata in visione della realtà attuale. Il quadro che ne risulta è desolato e desolante: protagonisti ne sono i crimini, lalienazione, il culto ossessivo dellapparenza, larroganza degli uni, lumiliazione degli altri, i media dediti a uninformazione verosimile anziché vera, la complicità fra ingannati e ingannatori, e infine, certamente, lomologazione di massa agli infimi livelli della moralità e del costume. Nulla da dire sulla oggettività di tutto ciò e sulla esistenza di troppi cattivi maestri: ma la colpa non è soltanto di essi, vè anche quella di quanti non hanno saputo fermarli o almeno smascherarli, per viltà o per quieto vivere, e non di rado per convenienza personale e, naturalmente, familiare (cioè: non mi espongo, tengo famiglia). In proposito ricordo il titolo di un memorabile film di André Cayatte, Siamo tutti assassini. Ecco il punto; siamo tutti, chi più chi meno, «assassini» della nostra libertà e dignità, prigionieri della tenaglia della «necessità» di sopravvivere confortati dalle comodità della tecnologia, procacciate da una lunga serie di rapporti interpersonali «influenti» allinsegna della reciproca convenienza. Ma sarebbe davvero meglio, come ipotizza Massimo Fini in uno degli ultimi numeri del Giudizio universale, una società diretta da talebani che distruggono i televisori e impiccano agli alberi delle piazze i colpevoli di gravi delitti? A proposito dellomologazione del linguaggio sugli schemi dello stucchevole linguaggio televisivo - altra «croce» della semiologia moderna -, ha avuto ragione Pasolini che lha violentemente deplorata, o Tullio De Mauro che lha elogiata come positiva svolta nelluso dei parlanti di unintera nazione? Sono domande che attendono risposte non arroganti ma decise, che io non so dare.
Per concludere: la massiccia realtà attuale e lamoralità dilagante a tutti i livelli è incorreggibile, o può essere almeno modificata da valori che informino una nuova convivenza collettiva? Dai due autori citati non vengono soluzioni: in questo Vassalli è più autenticamente pessimista, lui non ne vede; Romagnoli termina invece il suo libro indicando una platonica e alquanto ingenua via duscita: cambiare noi per cambiare chi ci condiziona e ci dirige. Daltra parte sarebbe assurdo ipotizzare una morale e unetica-politica universale cui tutti i popoli dovrebbero attenersi, e ingenuo credere ai miti contrapposti del «buon selvaggio» e dellhomo tecnologicus, o della «morale innata» e delle palingenesi cicliche. Scrisse Musil: lalternativa è fare la rivoluzione o urlare coi lupi.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.