S'intitola Gli antimoderni. Da Joseph de Maistre a Roland Barthes (Neri Pozza, pagg. 509, euro 28, traduzione di Alberto Folin) il saggio di Antoine Compagnon che ridisegna in controtendenza il panorama intellettuale francese (ma il discorso si potrebbe allargare facilmente a tutto il continente europeo) dell'Otto-Novecento.
Via via che le idee di Progresso, Illuminismo, Materialismo, ottimismo storico prendevano il sopravvento, la modernità conquistatrice e sempre all'offensiva, la letteratura andava dalla parte opposta: «Nella prospettiva storica, Chateaubriand trionfa su Lamartine, Baudelaire su Victor Hugo, Flaubert su Zola, Proust su Anatole France, la meravigliosa generazione dei classici del 1870 - Gide, Claudel, Colette - sulle avanguardie storiche dell'inizio del XX secolo e forse Julien Gracq sul Nouveau Roman. Nel celebrare, ancora un decennio fa, il centenario della nascita di Sartre ci si è accorti di assistere al funerale della modernità. L'adesione al proprio tempo, la fede nel proprio tempo, l'impegno nel proprio tempo... Come sembra tutto, ormai, fuori tempo...
Il saggio di Compagnon lo si può leggere sia come un excursus su quel filone della resistenza alla modernità che attraversa e in qualche maniera definisce la modernità stessa, distinguendola da un modernismo naïf, adoratore del progresso, sia come un indice tematico dell'anti-modernità ruotante intorno a sei idee fisse: in campo storico la controrivoluzione, in campo filosofico l'anti-illuminismo, in quelli morali e religiosi il pessimismo e il peccato originale, nei domini estetici il sublime e l'invettiva. Se ne può però fare una lettura più d'attualità, usandone le categorie e prendendo come filo conduttore la figura esemplare di Chateaubriand, del libro di Compagnon un po' la stella polare. Anche perché grazie a essa si può cogliere un altro elemento tipico dell'anti-modernità, dal saggista francese soltanto accennato: l'impoliticità. Perché gli antimoderni sono impolitici, ovvero tendono a subordinare la categoria del politico a elementi estetici e etici, quasi sempre stanno dalla parte degli sconfitti e quando gli capita di sedersi fra i vincitori è sempre per una causa che, come noterà appunto l'autore delle Memorie d'oltretomba, «una volta portata al successo mi si rivolterà contro».
Di estrazione nobiliare, Chateaubriand visse la Rivoluzione francese lacerato da un'insanabile contraddizione, tipica di chi è comunque altrove rispetto al proprio tempo. Da un lato l'assolutismo monarchico aveva finito con il privare di ogni contropotere l'aristocrazia del regno, riducendola a pura etichetta costretta a recitare a Versailles la realtà del cortigiano. Ciò spiega perché l'elemento nobiliare più avvertito dei rischi di una simile involuzione, e più attaccato alla propria dignità perduta, vedesse positivamente la convocazione degli Stati Generali, cogliendo in essa l'opportunità di meglio bilanciare i poteri con un ritorno alle libertà. Dall'altro lato, la deriva egalitaria, l'istinto di rivalsa, il desiderio di fare tabula rasa del passato accelerarono talmente i tempi che il regicidio di Luigi XVI mise improvvisamente l'intera nobiltà, la più retriva e codina come la più avvertita e liberale e la più corrotta e cinica, nell'alternativa fra il sostenere il nuovo che al vecchio si sostituiva, ma così facendo rinnegando se stessa, oppure rifiutarlo, ma con ciò condannandosi a una battaglia di retroguardia.
Lo scegliere la seconda strada porterà Chateaubriand a far parte dell'emigrazione e quindi all'esilio e alla lotta contro la rivoluzione. Una scelta fatta in nome della fedeltà a un mondo, a una parola, a uno stile di vita, a se stesso, insomma, nella consapevolezza però di ritrovarsi alleato agli elementi più deteriori, più ottusi e meno moderni della propria classe sociale, quegli stessi elementi che nell'accettare di appiattirsi supinamente sulla corona erano stati poi una delle cause del tracollo della stessa.
Le rivoluzioni, si sa, se tendono a essere permanenti divorano se stesse. E infatti dopo il Terrore, arrivano il Direttorio e Napoleone, primo console e non ancora imperatore... Chateaubriand vede bene il «Piccolo còrso». Lo vede come l'uomo in grado di uscire definitivamente dalla Rivoluzione senza per questo imboccare la strada della Restaurazione. Chateaubriand non vuole il Vecchio Regime: l'ha difeso, pur sapendolo indifendibile, perché anche in politica contano l'etica e l'estetica, ovvero il rispetto di se stessi, la parola d'onore, la dignità personale, l'amicizia. Sogna una Francia in cui il passato non sia demonizzato e dove la libertà eserciti un vincolo sul dispotismo, lo costituzionalizzi, le permetta di affrontare la sfida della modernità. Il suo «sì» a Napoleone è condizionato a questa scelta libertaria: diverrà «no» nel momento in cui questi sceglie l'impero e non la Francia. Un «no» che lo inserisce, nuovamente, fra i seguaci della restaurazione sic et simpliciter, quelli che nulla hanno imparato e niente hanno dimenticato, e che lui invano metterà in guardia: se rivolete il Re per diritto divino, è il messaggio, al suo posto avrete la fine della monarchia, il trionfo della repubblica e una modernità che vi divorerà. È una visione profetica e spiega perché il romanticismo antimoderno del suo autore sia oggi più contemporaneo del cinismo di un Talleyrand che riporterà Carlo X sul trono.
Come ben spiega Compagnon, gli antimoderni non vanno dunque confusi con i reazionari, i conservatori, gli accademici o i codini... Sono in realtà non tanto gli avversari del moderno, ma i suoi teorici, quelli che lo hanno pensato, gli emigrati dell'interno, gli «esuli in patria»...
E dunque i moderni loro malgrado, la retroguardia dell'avanguardia, per dirla con Roland Barthes, i vitalisti disperati, i pessimisti attivi, la modernità più la libertà. Di criticarla. E, stilisticamente parlando, rispetto ai moderni che lo scorrere del tempo condanna all'invecchiamento, hanno dalla loro un'atemporale eternità.
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