Le vere memorie cinesi dell’illuminista contaballe

Perfino i suoi dati anagrafici sono a guardar bene ambigui e oscuri. Perché il conte Jan Potocki, che nacque a Pikóv, in Podolia, l’8 marzo 1761 e fu il rampollo purosangue di un’antica famiglia di elettori della corona polacca, polacco a rigore non si potrà dire. La sua città natale, allora sul confine della Polonia meridionale con la Moldavia, si trova oggi in Ucraina. Ma già ai tempi della «seconda spartizione», divenne una provincia della Russia di Caterina la Grande. Così che il giovanotto, allevato nei collegi di Ginevra e di Losanna,educato alla scuola di pensiero dei più illuminati philosophes, si ritrovò presto suddito dello zar e in breve «consigliere privato» di Alessandro I. Precoce e prematuro fu anche nella fine. Non aveva compiuto 54 anni, quando, il 2 dicembre 1815, si sparò con la pistola una pallottola che si era fuso egli stesso in argento.
Gli estremi della sua vita spalancano a interpreti scrupolosi e brillanti i confini dell’immaginazione più sbrigliata. Scatenati non hanno tanto l’aria di essere gli impeccabili studiosi riuniti domani e dopodomani all’Accademia Polacca delle Scienze di Roma (vicolo Doria 2, 06/6792170 www.accademiapolacca.it) per ripercorrere le vie di «Archeologia Letteratura Collezionismo» su cui si incrociarono i percorsi del nostro Potocki con quelli del cugino storico dell’arte Stanislaw Kostka. Spregiudicato, o provocatoriamente spigliato, vuole invece esattamente essere Franco Cardini. Che, introducendo Il Diario dell’Asia (Dal Caucaso alla Cina, Medusa, pagg. 218, euro 20), del gran viaggiatore e gran narratore, politico e poligrafo, pioniere dell’egittologia, precursore dell’antropologia culturale, ce lo presenta come «un contaballe». Ma lo sapevano tutti. O almeno lo seppero in tanti. Molti dei quali, scettici sull’autenticità del suo Manoscritto trovato a Saragozza, certi dell’originalità delle storie che vi sono raccontate, non cascarono nella gabola del testo ritrovato e tradotto in francese dallo spagnolo, ma caddero nella tentazione di attingere alla farina del suo sacco. Tra gli altri, E.T.A. Hoffmann, Aleksander Puskin, Washington Irving, forse anche Bruce Chatwin, si appropriarono (a volte scontando il furto, come Maurice Cousin, che fu condannato per plagio) delle invenzioni fantastiche dell’illuminista, riscrivendo e rimaneggiando il corpus del suo capolavoro (pubblicato da Adelphi nel ’65, nel ’91 da Guanda).
I due inediti proposti con il Diario dell’Asia nella traduzione di Paolo Fontana hanno invece una doppia garanzia di attendibilità. La Memoria della spedizione in Cina, compiuta tra il 1805 e il 1806 al seguito dell’ambasciatore Golovkin, porta accanto al timbro della missione ufficiale l’impronta stilistica dell’autore. E esibisce, con aneddoti irresistibili più di qualsiasi argomento, il classico, antropologico scontro di culture: tra i sussiegosi dignitari dell’imperatore d'Oriente e i goffi occidentali ignari dell’etichetta cinese.

Il Viaggio nelle steppe di Astrakan e del Caucaso, invece, datato 1797-98, ha il tono del perfetto vademecum etnografico. Ma degli uomini del Caspio, va a esplorare, oltre a cibi, riti, abiti, paesaggi e costumi, anche le fantasie e le leggende.

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