La verità di Hinault: «In bici non mi battè neppure il declino»

Il fuoriclasse bretone si ritirò nel 1986, ma ancora oggi si rifiuta di parlare di sconfitta. Anche se proprio quell’anno Lemond gli soffiò il Tour...

Bernard Hinault, l’ultimo dei grandi di un ciclismo sempre più povero di talenti universali, è un concentrato di orgoglio tutto bretone. Nato il 14 novembre del ’54 a Yffiniac, in quella penisola della Francia che si protende tra la Manica e l’Oceano Atlantico, ha la testardaggine e l’orgoglio tipico di chi vive a quelle latitudini. È stato l’ultimo dei grandi, dopo Eddy Merckx, confortato dai numeri, il più prolifico di tutti. In dodici anni di professionismo Hinault ha vinto cinque Tour de France, tre Giri d’Italia, due Giri di Spagna, un mondiale, più un’infinità di classiche di un giorno e brevi corse a tappe.
Oggi vive a Quessoy, nella sua Bretagna, dove il 9 novembre dell’86 salutò tutti con una gara di ciclocross da lui organizzata per dare l’addio alle competizioni. Adora lavorare la terra, ma soprattutto adora il ciclismo e ricordare la sua epopea di corridore a tratti davvero invincibile. «Il peso degli anni? La sensazione di non avere più il colpo di pedale dei giorni migliori? Mai provato nulla di simile – racconta “le blaireau”, il tasso, come amavano chiamarlo i suoi tifosi, per via della sua curiosità e di quel gesto impercettibile del labbro -. Ho sofferto per qualche fastidio fisico, per un ginocchio ballerino che ad un certo punto si è trovato con la guaina del tendine sporca di scorie filamentose e alla fine ho dovuto operare. Un fastidio, per esempio, che non mi impedì di vincere nell’80 il titolo mondiale a Sallanches, staccando tutti, compreso il più acerrimo dei miei rivali, il vostro Baronchelli sulla salita di Domency. Se non avessi avuto problemi a quel ginocchio, che di tanto in tanto mi condizionava, non avrei perso nemmeno i Tour vinti da Fignon...».
Orgoglioso e tenace come pochi Bernard Hinault, oggi uomo immagine del Tour de France e ambasciatore del ciclismo francese nel mondo. Curioso, scaltro, tosto e dalla memoria spiccata, dicono di lui. Eppure non ricorda nemmeno la crisi vissuta salendo verso Superbagnères, al Tour dell’86, dove in pratica perse la corsa a beneficio del suo compagno di squadra, quel Greg Lemond che lui stesso aveva scoperto nel Nevada nell’inverno dell’80 e a tutti i costi aveva voluto in squadra. «Ero in maglia gialla, il giorno prima a Pau aveva vinto Delgado, io ero arrivato con lui, terzo Greg ad oltre quattro minuti e mezzo. Il sesto Tour era in pratica nelle mie mani. Decisi però di attaccare ugualmente anche il giorno seguente. Volevo fare un numero, dare sfogo alla mia fantasia. Mi alimentai male, arrivai al traguardo stremato a quasi 5 minuti da Greg, però restai ancora in maglia gialla. Potete pensare quello che volete, ma se Greg vinse fu merito mio. L’anno prima chiesi a lui una mano affinché mi aiutasse a fare l’accoppiata Giro e Tour ad una condizione: il Tour dell’86 sarebbe stato suo. Così è stato».
Niente, non ammetterà mai. Neanche la sconfitta mondiale patita a Colorado Springs, dove vinse Moreno Argentin davanti al transalpino Charley Mottet. Neanche quel giorno sentì qualcosa girare meno bene del solito?... «Io ho sempre osato, io ho sempre cercato di andare oltre, e qualche volta sono finito dentro all’ingranaggio dei giochi di squadra e delle alleanze. Io l’avevo detto in tempi non sospetti: a 32 anni mi fermo, e così ho fatto. Pensatela come volete, ma io ho corso l’ultimo Tour da protagonista. L’ho finito secondo a 3 minuti da Lemond, ho vinto tre tappe, ho vestito per cinque giorni la maglia gialla, ho onorato la corsa. Qualche mese dopo, prima della sfida iridata, vinsi il Giro del Colorado, precedendo proprio Lemond di 1’26” e Phil Anderson di 1’52”. Sono sempre stato un vincente, e l’addio alle corse l’ho dato all’apice della mia carriera, proprio perché non avrei mai sopportato l’idea di essere un corridore normale, come tanti altri. Ho sempre avuto paura di dover percepire l’inizio del declino. Non avrei mai sopportato l’idea di ascoltare la voce subdola e silenziosa della mia resa. Il battito del cuore a mille e le gambe che non vanno più: no quella non sarebbe stata la mia fine.

Ho vinto tantissimo, ho perso parecchio, soprattutto perché ho osato molto per poter stravincere, come alla Liegi dell’80, sotto la tormenta di neve e 160 chilometri in fuga solitaria. Anche nel Tour ’86 osai per fare qualcosa che pochi altri erano riusciti a fare in maglia gialla, mi andò male. Fui però uomo di parola: con Greg Lemond».
Poi tra i due calò il silenzio. E il sipario.

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