Appena si è diffusa la notizia della morte, ha dettato alle agenzie una dichiarazione che suona come un onore delle armi fra «vecchi nemici». Colleghi di una vita, ma anche rivali su testate in competizione «Se ne è andato un vecchio leone che ci mancherà». Ma se poi lo chiami, Bruno Vespa, conduttore di Porta a porta, ma storico direttore del Tg1 quando Sandro Curzi era al Tg3, ti racconta di quella competizione tutta particolare a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta: «Gli dicevo: stai calmo Sandro, stai calmo che così ci metti tutti nei guai...».
In che senso?
«Parliamoci chiaro: Il Tg3 di Curzi era una macchina da guerra di Botteghe Oscure. Il Tg2 di La Volpe era inquadrato e coperto a testuggine nei ranghi del Psi... Io con il mio Tg1 mi trovavo di fronte alla Dc che si arrabbiava, e diceva: e noi?».
Addirittura...
«Come addirittura? Mi cacciarono dalla direzione proprio per questo».
Ma che cosa resterà del suo modello giornalistico?
«Era sicuramente un giornalismo schierato, un Tg “militante”. Ma lo era in modo chiaro, alla luce del sole».
Ma oltre a questo che cos’è che faceva del Tg3 di Curzi un modello vincente?
(Vespa ci pensa su, poi sorride) «Quello che resterà è sicuramente la sua pipa».
La pipa?
«Sì. Bisogna immaginare che rottura degli schemi erano i suoi editoriali. Un direttore di un Tg Rai che va in video, che parla a braccio, e che ci va con la pipa accesa, come se fosse nel soggiorno di casa!».
Tu non condividevi nulla, di quei fondi.
«Ovviamente no, ma questo è irrilevante. Potevi essere d’accordo o meno, ma ti ricordavi sempre cosa avesse detto, e questo in televisione è il primo requisito».
Cosa rappresentava la pipa di Curzi?
«In fondo il suo era il primo Tg italiano che si modellava su una formula personalizzata: adesso ci sembra scontato, allora non lo era affatto».
Per anni lo hai invitato anche a «Porta a porta».
«Oh, sì, spesso. Per lo stesso motivo, in fondo. Era un ottimo comunicatore. Semplice, chiaro, diretto. Era molto corretto, non dava lezioni a nessuno. Stavolta è proprio vero che se ne va un pezzo di storia del dopoguerra italiano».
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