Veto ai direttori stranieri? No, scadenza dei mandati

Il terzo incarico è negato dalla legge voluta da Franceschini. Pensiamo ai meriti degli italiani

Veto ai direttori stranieri? No, scadenza dei mandati

Con una supponenza pari alla incompetenza, e incapace di intendere la differenza fra proclama, decreto e battuta, un cronista di Artribune continua la strenua lotta del suo direttore, generalmente all'insaputa dell'editore, contro le mie posizioni, anche quando non comprese. Io, in costume di brigante, faccio alcune battute in un salotto balneare, a Viareggio, rispondendo a Stefano Zurlo, e divento un retrogrado autarchico, pur illustrando fatti e non opinioni, in perfetta sintonia con il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Mi rendo conto subito che prosperano i pierini modello Artribune, e faccio una prima precisazione evidentemente inascoltata, ben elaborata: «In merito ad alcune mie espressioni giocose e, oso presumere, spiritose, stimolate da Stefano Zurlo, comincio a rendermi conto che non si può più né scherzare, e forse neppure parlare. Io non ho dato pagelle a nessuno. Ho fatto battute: punto».

E voglio ribadire, nella sostanza del loro lavoro, tutta la mia considerazione per i direttori «stranieri» di alcuni grandi musei italiani, come gli Uffizi, Capodimonte, Brera. Ho sempre pensato e dichiarato che hanno fatto bene. Ma italiani o non italiani, dopo due mandati, per una legge voluta dall'ex ministro Franceschini, non possono essere riconfermati e non saranno più, quindi, direttori di quei musei. Ma tutti conoscono l'attività svolta con impegno da Eike Schmidt, con il quale ho più volte lavorato in grande sintonia. Lo stesso voglio dire, e ho già detto, nelle sedi proprie, per Sylvain Bellenger, direttore intelligente e fantasioso, che stimo e di cui sono amico, e con il quale ho collaborato in diverse mostre. A lui va tutta la mia stima e considerazione; ma non governo io l'orologio del tempo.

Sono certo che sia Schmidt sia Bellenger faranno molte altre cose per i musei italiani e per l'Italia, che amano più degli italiani, come i grandi viaggiatori stranieri che l'hanno resa celebre, tedeschi e francesi, come loro: Winkelmann, Goethe, Stendhal, Montaigne. Loro sono più italiani degli italiani. Ma una cosa sono le battute, un'altra la riconoscenza e la gratitudine che ho per loro. Mi spiace dire che, nella sempre più frequente incomprensione dei due registri, probabilmente dovrò rinunciare alle battute. È sempre più difficile parlare in Italia. Il tempo di Pasolini, di Flaiano e di Tito Balestra è finito.

L'incompetente, imitando il sindaco di Milano Giuseppe Sala, che si è misurato con me sullo Stadio di San Siro uscendone ridicolizzato, entra nel merito delle mie deleghe riducendomi a cattivo suggeritore. Anche in questo caso andrà puntualizzato che il decreto che regola le mie deleghe è molto chiaro e puntuale, e mi mette nelle condizioni di muovermi in uno spazio di mia competenza: «Con proprio decreto il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha conferito al Sottosegretario Vittorio Sgarbi le deleghe su musei, aree e parchi archeologici statali; arte e architettura contemporanea; sicurezza del patrimonio culturale. Il Sottosegretario Sgarbi è stato altresì delegato a svolgere le iniziative di supporto al Ministro con riferimento alla partecipazione agli organi dell'Unione europea e al Consiglio di Europa nelle materie delegate. Nelle materie delegate, nel rispetto del generale principio della distinzione tra atti di indirizzo politico e atti di gestione, nonché degli indirizzi e delle direttive espressi dal Ministro, il Sottosegretario di Stato Vittorio Sgarbi firma i relativi atti e provvedimenti, ivi inclusi accordi e protocolli di intesa con Regioni ed enti locali».

Mi dispiace dunque che, in nove mesi, da quando furono stabilite, non siano «giunte notizie in merito ad una delega da parte del ministro Gennaro Sangiuliano in merito al settore museale» (sgrammaticature a parte). Si inizia con gli equivoci. Nel rispondere alle imputazioni sul tema direttori italiani/direttori stranieri replicherò anche alle altre contestazioni del cronista. Io parlo del Louvre, e il cronista ricorda la National Gallery di Londra con il consueto Gabriele Finaldi. Inutile dire che alle origini della nostra moderna disciplina c'è Bernard Berenson, americano di cittadinanza e di cultura italiana, fonte per tutti i sovrintendenti e direttori di musei italiani, ma anche consapevole responsabile della dispersione all'estero di opere fondamentali del patrimonio italiano.

Come per dirigere un Museo, anche per «disperderlo» non conta la nazionalità. La questione (incompresa) è un'altra e riguarda le competenze, gli studi, le università e i concorsi dei candidati italiani, come vedremo. Sulla questione del discutibile intervento dall'architetto Ieoh Ming Pei con la Piramide del Louvre, alla cui inaugurazione io partecipai, non c'è dubbio che sia stata un'ottima strada per rendere commerciale il primo museo del mondo. Ma preferisco, anche in questo caso, ricordare gli italiani: per il Louvre, i progetti di Gian Lorenzo Bernini e, per il Museo di Victoria in Australia, l'invenzione di Mario Bellini. La loggia di Isozaki agli Uffizi è evidentemente brutta e non si farà. Non stabiliva e non stabilisce nessuna «gradevole simmetria tra ingresso e uscita». Ed è vecchia e costosa. Se ne farà una verde e molto meno dispendiosa.

Quanto alla Pietà Rondanini, inutile ripetere il valore universalmente riconosciuto dell'allestimento (storico) dei BBPR, smantellato per un triste e ordinario progetto di Michele De Lucchi, con la compiaciuta esibizione di corpi illuminanti e altri elementi di disturbo, evidentemente graditi al cronista. Gli suggerisco di proporre lo smantellamento dell'intervento di Carlo Scarpa a Castelvecchio voluto dall'italianissimo direttore Licisco Magagnato. E vorrei qui ricordare i nomi di grandi direttori italiani che hanno modernizzato con eleganza i nostri musei, lasciando riconoscente memoria del loro lavoro, quando non sembrava necessario ricorrere a maghi stranieri di dubbia efficacia. Penso (e molti ne ho conosciuti) a Bruno Molaioli, Raffaello Causa, Francesco Valcanover, Pietro Zampetti, Nicola Spinosa, Franco Russoli, Carlo Bertelli, Ugo Procacci, Antonio Paolucci, Noemi Gabrielli, Bruno Passamani, Antonio Natali, e ai più giovani Cristina Acidini, Caterina Bon, Sandra Bandera, Paola Marini, Mauro Felicori.

Improvvisamente, a imitazione del calcio, sono sembrati indispensabili gli stranieri. Cosa hanno fatto? Chiedetelo a Nicola Spinosa. Non di meno la mia posizione non è dogmatica, è sempre stata rispettosa delle competenze ma anche nel significato simbolico di alcune direzioni. Tutto qua.

La mia era una constatazione: i tre direttori dei principali musei italiani non possono essere riconfermati perché lo ha voluto Franceschini, e non certo perché sono stranieri, ma semplicemente perché, come nelle prescrizioni di Grillo per i deputati dei Cinque stelle, e come in tutta Italia i sindaci, non possono superare i due mandati. La mia posizione, come quella del ministro, non è, e non può essere, contro direttori e studiosi stranieri. Sangiuliano ha detto puntualmente: «Gli stranieri non devono essere discriminati. Se sono bravi devono poter lavorare. Stimo molto per esempio i direttori degli Uffizi e Pompei, e mi auguro che possano continuare a lavorare in Italia».

Tutto vero, tutto giusto. Per il direttore di Pompei Gabriel Zuchtriegel non c'è problema, non è in scadenza. E Eike Schmidt dagli Uffizi passerà a un altro grande museo italiano. La polemica non esiste se non al contrario, come spesso accade. Non dobbiamo infatti discriminare studiosi e funzionari italiani con la mitologia dello straniero.

La preparazione e la capacità di chi ha studiato in Italia e ha fatto concorsi per soprintendenze e musei non possono essere mortificate, come se essere stranieri fosse un requisito di maggiore qualità. Nei musei stranieri ci sono italiani; nei musei italiani ci sono, e ci potranno essere, ovviamente stranieri.

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